La Stampa, 19 maggio 2025
Un italiano su due promuove Prevost ma tra i più giovani vince lo scetticismo
Con la messa in San Pietro, ieri è cominciato il pontificato di Papa Leone XIV. L’intronizzazione segna l’inizio ufficiale del nuovo Pontefice. Un italiano su due confida che il suo incarico sia in continuità con quello di Francesco (51,9%).
È interessante osservare il dato politico che vede gli elettori della Lega, in controtendenza con tutti gli altri, posizionarsi in maggioranza (46,7%) sull’attesa di un mandato di rottura rispetto all’operato del suo predecessore.
Tra i più giovani emerge una certa resistenza nell’indicare una preferenza tra un pontificato in continuità o in discontinuità con Papa Bergoglio. Molti studi indicano che le nuove generazioni tendono ad avere un rapporto più personale, spirituale e meno dogmatico con la fede. Per loro ciò che conta principalmente è l’autenticità della persona più che la linea ideologica e risultano meno inclini a schierarsi con le categorie classiche interne alla gerarchia della Chiesa. Questo non significa che risultano essere apatici o disinteressati alla figura del Papa, tuttavia, molto spesso, molti di loro non riescono a riconoscersi nei termini in cui il dibattito viene posto. Tendono a cercare autenticità, coerenza e apertura piuttosto che continuità o rottura rispetto ad un modello precedente.
Nel complesso, considerando l’attuale scenario geopolitico internazionale, la scelta di eleggere l’americano Robert Francis Prevost ai vertici del Vaticano per un italiano su due (46,9%) è stata un’opzione corretta. E ancora una volta i più giovani del campione, sondato da Only Numbers per La Stampa, si dimostrano in pieno dissenso (56,1%). Questo contrasto non è necessariamente una dimostrazione esplicitamente ideologica o teologicamente fondata, ma sembra invece inserirsi in una sensibilità più generazionale che osserva con sospetto a certe forme di potere e influenza.
Il rischio percepito che emerge dai numeri è che un Papa statunitense possa rappresentare – anche simbolicamente – una colonizzazione culturale della Chiesa da parte di una potenza politica ed economica – guidata oggi da un presidente molto discusso. Quasi il 60% dei ragazzi di età compresa tra i 18 e i 24 anni si dimostra diffidente sulla possibilità che la nazionalità americana potrà agevolare i rapporti internazionali con Donald Trump.
Il timore quindi potrebbe essere quello che la spiritualità possa dimostrarsi subordinata alla geopolitica e che la Chiesa possa perdere la sua capacità di essere una voce autonoma, libera, profetica e globale.
In effetti, solo il 28,9% del campione nazionale intervistato è convinto che le origini di Papa Leone XIV possano essere una carta utile nei rapporti internazionali con il tycoon made in Usa. I più persuasi da questa lettura, con la media del 43%, risultano essere concentrati in maggioranza tra le file dei partiti del centro destra di governo.
Alto è il tasso di coloro che non hanno saputo o voluto rispondere nel merito (36,1%). Del resto, il dubbio che può nascere è forte, perché la figura del Pontefice nel nostro Paese è vista più come un testimone morale e non come “un’arma” nel confronto geopolitico internazionale. La sua coerenza si fonda tra parola e vita, sulla difesa della dignità umana e sulla capacità di parlare e scuotere la coscienza dell’umanità.
Non parla per interessi di parte, ma in nome di valori universali, come la pace, la solidarietà, la tutela dei deboli. E proprio la pace è stata al centro dei primi discorsi pubblici da neo eletto Papa. Tre cittadini su quattro (74,1%) hanno ampiamente apprezzato la scelta di metterla al centro del suo discorso di saluto al popolo.
Tuttavia, ancora una volta sono i più giovani che si dimostrano in totale controtendenza rispetto al sentire comune. Ben il 53,7% di loro, pur dimostrandosi all’interno dell’ampio questionario molto sensibili al tema, non ha condiviso la scelta del neo Pontefice. È vero che siamo in un periodo in cui “pace” è una parola stra-usata da tutti, anche da leader che poi promuovono guerre. Forse il rischio potrebbe essere quello di una generale percezione di retorica vuota, alla ricerca di coerenza tra parole e azioni per dare maggiore forza al messaggio. In un mondo dove i conflitti si moltiplicano, dove la comunicazione è spesso polarizzata e la sofferenza è normalizzata, dire pace può suonare vuoto se non ci si interroga su che tipo di pace vogliamo, per chi, e a quale prezzo.
Usare la parola pace è oggi sicuramente necessario, tuttavia, forse non è più sufficiente da sola, deve essere rinnovata, riempita, incarnata. Non basta nominarla: bisogna viverla.