Il Messaggero, 18 maggio 2025
Intervista al fotografo Albert Watson
Monumentale, forte della sua storia e dei suoi simboli. Ma anche giovane, vivace, in fermento: nuova. Sono più anime della città a essere immortalate nella mostra di Albert Watson Roma Codex la più grande mai dedicata in Italia al fotografo scozzese per nascita, newyorkese d’adozione che dal 29 maggio al 3 agosto sarà ospitata a Roma, a Palazzo delle Esposizioni, a cura di Clara Tosi Pamphili. Watson, tra i più influenti fotografi degli ultimi cinquant’anni, dal 1970 a oggi ha firmato campagne di moda, copertine di Vogue e molto altri lavori. Ora, il "ritratto" di Roma contemporanea, come codice per accedere al suo cuore. Prodotto da Azienda Speciale Palaexpo con Studio F.P., il progetto riunisce duecento foto, inclusi ritratti di volti noti, da Riccardo Scamarcio a Pierfrancesco Favino, Toni Servillo e altri.
Come si crea un’immagine inedita di Roma?
«Esistono molte immagini della città e all’inizio ero nervoso, specie perché la prima mostra si tiene nella Capitale e mi domandavo se ai romani sarebbe piaciuto vedere una foto del Colosseo, che vedono ogni giorno. Non ho voluto osservare Roma con idee preconcette o sentendo la pressione di dover immortalare ciò che la gente si aspetta di vedere. Non volevo fare una "guida" della città».
Quindi, come ha fotografato?
«Ho scattato, complessivamente, per 34 giorni, circa dodici ore al dì. Sono arrivato nel mese di luglio, Ed è proprio quello che si vedrà in mostra: la mia visita a Roma. Giravo sempre con una macchinetta portatile, che mi garantiva flessibilità, consentendomi di scattare ogni volta che trovavo un soggetto interessante. Ho usato, però, anche una fotocamera per scatti ad altissima risoluzione. Mi è capitato spesso, mentre guidavo, di fermare l’auto per fotografare. In particolare, la gente».
Chi ha fotografato?
«Giovani e artisti emergenti, passando da scuole di danza a club underground, ma anche attori e registi famosi. L’unica persona che mi metteva un po’ d’ansia fotografare era Paolo Sorrentino. Adoro i suoi film. Mi aspettavo che arrivasse in limousine, invece è comparso sul set qualcuno che pensavo fosse un corriere in bici: era Paolo in motorino. Si è rivelato affascinante quanto i suoi film».
Cinema in primo piano. È stato anche a Cinecittà.
«C’ero stato quarant’anni fa, quando c’era ancora il set di Federico Fellini per Ginger e Fred. Tornare è stato incredibile».
Scattando, cosa ha capito di Roma?
«Ho percepito la sensazione di chi vive qui, immerso nella storia, e ho sentito la modernità dei giovani che sentono quella stessa storia, ma al contempo sono come i ragazzi di ogni altro luogo. Sono proprio questi ultimi a rappresentare la nuova Roma: sono parte della visione globale del mondo, ma orgogliosi della romanità».
Facciamo un salto indietro. Quando ha deciso di diventare fotografo?
«Studiavo come grafico, a vent’anni ho preso la macchina fotografica in mano quasi per caso e sono diventato ossessionato. Mi sembrava magico poter entrare in camera oscura con un pezzo di carta bianca, immergerla in un liquido e veder apparire un’immagine».
Ci sono maestri che sono stati fonte d’ispirazione agli inizi?
«Brassai, Cartier-Bresson, William Klein che aveva realizzato un libro su Roma. Anche Edward Weston, Richard Avedon, Irving Penn. Tutti loro mi hanno ispirato».
Lo scatto indimenticabile a Roma?
«Quando ho fotografo la Pietà di Michelangelo. Mi sono sentito quasi sopraffatto dall’emozione».
Ha esplorato ambiti differenti della fotografia, dai ritratti alla moda. Come mai?
«Mi interessava il paesaggio ma anche la natura morta. Poi, la moda e così via. C’è una cosa che fanno tutti i fotografi: guardano attraverso il rettangolo della macchina fotografica, è ciò che mettono in quel rettangolo che fa la differenza. La diversità delle immagini mi affascina. Così in mostra si vedranno monumenti e, accanto, personaggi come Roberto Bolle».
Il suo primo ritratto?
«Alfred Hitchcock. Non avevo mai ritratto nessun personaggio celebre. Sudavo, ero nervoso ma ero anche entusiasta, era una combinazione di emozioni. Si potrebbe dire una sorta di eccitazione nervosa. Sono stato molto fortunato con lui, perché era un soggetto che amava essere fotografato. Mi ha aiutato moltissimo. Ha contribuito tanto alla composizione dello scatto. Dopo, ho anche preso il tè con lui».
Che consiglio darebbe a un giovane fotografo agli inizi?
«Di prendersi tempo per prepararsi. La preparazione e la ricerca su ciò che si sta facendo sono fondamentali. Tanti dicono che preferiscono essere spontanei. Va bene, si può essere spontanei. Ma è importante avere una filosofia. Sapere chi sei come fotografo».