Il Messaggero, 19 maggio 2025
I segnali di Moody’s a Trump
Anche gli eroi piangono. Pure il debito pubblico americano viene declassato da Moody’s facendolo retrocedere dalla tripla A ad “Aa1”. Invero anche in passato aveva subito qualche bocciatura, dalle agenzie di rating Fitch e Standard&Poor’s, ma questa di Moody’s scotta di più perché colpisce la fase iniziale dell’amministrazione Trump. È pur nota la frase, che ha diverse declinazioni, secondo la quale il debito degli Usa è soprattutto un problema degli altri Paesi. Per l’incidenza che esso ha sulla stabilità finanziaria a livello globale e nei rapporti con i singoli Stati, a partire dalla posizione dei creditori esteri che posseggono, secondo alcuni dati, un quarto degli oltre 36 mila miliardi di dollari che costituiscono l’ammontare del debito in questione.
Le motivazioni addotte da Moody’s non sono di poco conto, riguardando una scarsa fiducia nella riduzione della spesa. Anzi, si teme che le proposte fiscali in discussione accentueranno il deficit e aumenteranno sempre più debito e onere per i relativi interessi. Moody’s stima che dal 2024 al 2035 il rapporto deficit-Pil passerebbe dal 6,4 al 9 per cento. In aumento sono gli spread tra i titoli pubblici americani, i Treasury, e i Bund tedeschi. Oggi vedremo se e quali saranno le ripercussioni di Borsa.
In sostanza è la politica fiscale di Trump, almeno per quel che ora parrebbe, alla base della bocciatura. Ma l’Agenzia richiama anche le precedenti amministrazioni e i passati Congressi. Dura è stata la reazione della Casa Bianca, che accusa gli analisti della società di rating di conflitti di interesse (politici) e di inadeguatezza, ma mostra pure insofferenza per norme e controlli. Naturalmente, quando si esaminano i giudizi delle società di rating, bisogna avere sempre presenti i limiti degli stessi e la necessità di una riforma che riguardi l’assenza di potenziali commistioni e conflitti di interesse, i procedimenti attraverso cui si arriva al rating, la Vigilanza sull’osservanza delle relative norme. Di ciò non ci si può, però, ricordare solo quando i giudizi sono negativi, ma sarebbe necessario promuovere accordi internazionali per varare una seria riforma che enfatizzi autonomia e autorevolezza di chi esprime valutazioni che poi hanno importanti ripercussioni. È anche vero che il giudizio di Moody’s non fa di colpo cessare, almeno per ora, la condizione del debito americano come quello maggiormente affidabile.
Detto tutto ciò, gli Usa non potranno, tuttavia, sottrarsi a impegnative decisioni sulla spesa e sul debito: è la politica economica che viene in primo piano. E non aiuta, anche se Donald Trump ritiene il contrario, la politica dei dazi anche per l’incertezza e i “dietrofront” che la stanno contrassegnando. Così che, al danno reciproco che le progettate tariffe sono suscettibili di causare, si aggiungono il contesto di incertezza, la mutevolezza quotidiana delle decisioni, il non inquadramento di specifiche trattative commerciali con alcuni Paesi in un quadro di rapporti multilaterali. Privilegiando, al contrario, la fine del multilateralismo in nome di una visione protezionistica.
Se la politica economica, con i dazi innanzitutto, farà salire l’inflazione, allora sarà più che giustificata la mancata riduzione dei tassi di riferimento da parte della Federal Reserve che, già nell’ultima riunione del proprio Comitato monetario, ha lasciato immutato il costo del denaro e ha mostrato di paventare shock frequenti dell’offerta che certamente, a meno di un’azione di anticipo, renderanno difficile un allentamento monetario. Anzi, potrebbe essere necessario un aumento dei tassi che accrescerebbe l’onere per il finanziamento del debito pubblico. A sua volta, ciò potrà comportare un rallentamento dell’economia.
Naturalmente, gli Usa restano la prima potenza mondiale: è ancora valida la replica di quel grande Governatore della Banca d’Italia che era Donato Menichella il quale, in occasione di confronti tra economie, affermava con una costruzione della frase tipicamente meridionale, quando era coinvolta l’America: «Ma ti vuoi mettere con il dollaro?». Gli Usa hanno la capacità e i mezzi per correggere i propri errori e rivedere scelte pericolose come è stato positivamente fatto con l’accordo transitorio sui dazi con la Cina, che alcuni considerano un vero cedimento a cui gli Usa sono stati costretti anche per l’originaria sottovalutazione della capacità di reazione di quel governo. Trump comincia, tuttavia, a farci vedere anche qualche spunto positivo nel versante della politica internazionale, a maggior ragione quando non incombono potenziali conflitti di interesse personali. Certo, una seria, lunga, sospensione dei conflitti in Ucraina e in Palestina, per non parlare del conseguimento di una vera pace, sarebbe un fattore che supererebbe ogni altro limite e in qualche modo bilancerebbe altre scelte sbagliate. Ma è anche l’Europa che deve fare sentire il proprio ruolo in una fase di straordinarie difficoltà politiche, economiche e sociali.