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 2025  maggio 18 Domenica calendario

Meloni e l’identità perduta dell’Italia

Sotto il grande cielo della Prima Repubblica, tra promesse mancate, progresso inseguito e realizzato, libertà garantita, l’Italia sapeva cos’era, o almeno cosa voleva essere: un Paese europeo, occidentale, democratico e antifascista. Quel quadrilatero costruito dalla storia e dalla responsabilità dei cittadini negli ottant’anni che abbiamo alle spalle si traduceva in una cultura comune, dove quei riferimenti e quei valori si combinavano e si garantivano insieme, diventando una natura della nazione, una sua forma d’espressione, una scelta rinnovata nel passaggio delle generazioni.
L’accumulo delle contraddizioni, delle infedeltà e delle inadempienze di quel periodo storico è stato senza dubbio rilevante e addirittura impressionante, ma non ha mai impedito la crescita e il benessere, e soprattutto non ha mai messo in discussione quei quattro elementi costitutivi della nostra identità, che sono sopravvissuti fino a oggi: quando tutto sta cambiando.

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Nessuno ha annunciato con un proclama l’intenzione di ribaltare la fase, cambiare i fondamentali e sostituire gli idoli repubblicani con divinità postmoderne e tecnocratiche, anche perché nessuno ne ha la forza. Ma proprio dalla debolezza nascono tentazioni e occasioni che rischiano di modificare il quadro che ci definisce come Paese, senza saper bene con cosa sostituirlo.
Non c’è dubbio che Giorgia Meloni venga da un altro mondo, con valori alternativi a quelli in cui è cresciuta la Repubblica, anche se naviga dentro la società politica e parlamentare da molti anni. Ma dopo aver conquistato il potere con la vittoria elettorale, ha scelto di istituzionalizzarsi senza omologarsi, abitando a palazzo Chigi ma tenendo un piede fuori dal sistema.
Non è solo la retorica auto-leggendaria dell’underdog che scava il suo percorso sbucando infine nel cuore del Palazzo: è piuttosto la precisa volontà di mantenere l’identità di quella destra nata dall’incrocio tra neofascismo e postfascismo, di rappresentarla anche dalla postazione di guida delle istituzioni costituzionali e quindi di portarla al governo intatta, mentre con riluttanza si prendono le distanze dal fascismo storico, o almeno dai suoi crimini più evidenti.
C’è dunque una pratica repubblicana, una prassi per forza di cose costituzionale, una forma democratica. Ma c’è e resiste, nello stesso tempo, una cultura originaria alternativa a questo impianto, antagonista perché nata fuori dalla democrazia, antisistema in quanto estranea ai valori della Costituzione.
Meloni ha finora evitato il cozzo tra le due culture, tuttavia non ne ha risolto la contraddizione e l’ambiguità, limitandosi a sovrapporle, in un’evidente incongruità. Rifiutandosi di scegliere e di sciogliere quel nodo la presidente del Consiglio non compie affatto un’operazione nostalgica, bensì un gesto futurista: perché mantenendo nella sua persona e nella sua responsabilità la rappresentazione di quel contromondo mentre è al vertice del governo, vuole insediare il pensiero post-fascista nel flusso delle culture costituenti della nuova Repubblica, con pari legittimità: fuori dalla storia, ma con il beneplacito dei suoi elettori.
Ecco perché bisogna prendere atto che l’antifascismo istituzionale è finito, salvo la pedagogia coerente del presidente della Repubblica, che però è un’eccezione pur essendo il garante supremo della Carta fondamentale: e già questo è uno squilibrio evidente, spia di una deriva in corso.
Si capisce e si spiega così l’attenzione e l’attrazione della premier per leader politici neo-autoritari come Viktor Orbán e reazionari come il “legionario” George Simion.
Ma intanto si infragilisce un altro elemento di base dell’identità politica italiana, l’appartenenza europea, che era un dato acquisito, soprattutto nelle giovani generazioni. Oggi infatti il governo dà corpo al suo euro-scetticismo, dimenticando il ruolo storico dell’Italia nella costruzione politica del continente, come Paese fondatore dell’Unione.
Mentre l’Europa a due velocità incomincia a prendere forma, con i “volenterosi” di Francia, Germania e Polonia uniti addirittura con la Gran Bretagna post-Brexit nella necessità di operare uno strappo nel sostegno politico e militare all’Ucraina, l’Italia sceglie una sorta di secessione dal gruppo di testa, senza riuscire a spiegarla e giustificarla, e intiepidisce il suo appoggio a Kiev, seguendo le orme di Trump senza sapere dove porteranno.

Il terzo pilastro della nostra cultura politica nazionale – la coscienza occidentale – scricchiola da tempo, proprio perché poggia su valori che la destra estrema non riesce a fare propri, come lo Stato di diritto. Più facile per Giorgia Meloni compiere una scelta atlantica che occidentale: ma l’Occidente fortunatamente non è una caserma, e la Nato può difenderlo, non sostituirlo.
Resta il quarto elemento, che in realtà è il primo: la democrazia, vera prova del nove del cambio “patriottico” dell’identità italiana. Non perché ci siano segnali anti-democratici nel nostro Paese: ma piuttosto perché la tendenza evidente di tutte le destre estreme al potere è quella di attaccare gli istituti, le regole e i procedimenti liberal-democratici che negli anni la democrazia ha inventato a tutela di se stessa e quindi della libertà dei cittadini, abituando il potere a sviluppare una coscienza del limite.
La tentazione oggi nel mondo è invece quella di conquistare quote di potestà supplementari alla dotazione legittima, cercandole fuori dalle Costituzioni, nell’obiettivo di creare quella “verticale del potere” che metta a diretto contatto l’eletto e l’elettore, senza più soggetti intermedi.
Donald Trump riassume l’idea di questo sfondamento, nella rottura di sistema per la creazione di un nuovo ordine. Vedremo se Giorgia Meloni, arrivata al punto decisivo, sceglierà la civiltà politica dell’Italia europea e occidentale, o cederà al richiamo della foresta ideologica da cui non riesce a uscire.