La Stampa, 18 maggio 2025
"La mia vita è comporre musica e suonarla in giro per il mondo ma solo a Dogliani mi sento a casa"
La famiglia Einaudi è molto importante in Italia.
«Sì, mio nonno Luigi è stato il primo presidente italiano dopo la Seconda guerra mondiale».
È stato difficile avere un background familiare così?
«All’inizio sì, dovevo capire come trovare la mia strada. La musica era stata una bella via di fuga, perché mia madre suonava spesso al pianoforte classici come Chopin, Mozart e Bach. Avevo due sorelle, ero il più piccolo. Ogni mercoledì alla casa editrice di mio padre si tenevano delle riunioni serali, che finivano alle 20, e lui portava a cena tantissimi ospiti, scrittori come Italo Calvino, Natalia Ginzburg, Elsa Morante e Primo Levi. Erano amici di famiglia, ai quali si aggiungevano ogni tanto personaggi come Susan Sontag e Noam Chomsky».
Non voleva diventare editore o scrittore?
«Ci avevo pensato, ma ne dubitavo. A 17 anni avevo lavorato nell’archivio della casa editrice, tra i libri d’arte, ma non credevo di avere la testa adatta per fare il manager. Avevo un animo più artistico che volevo esplorare grazie alla musica».
Ha imparato a suonare il piano da piccolo?
«Ho iniziato molto presto grazie a mia madre. Poi ho avuto un insegnante e poi ho iniziato a suonare con gli amici, anche la chitarra. Era l’epoca dei Beatles, le mie sorelle maggiori suonavano Jimi Hendrix e Bob Dylan. La musica era parte della rivoluzione nel nostro modo di vestire e comportarci, una sorta di rivoluzione culturale per i nati nel dopoguerra».
Così ha deciso di studiare musica?
«Ho iniziato al conservatorio di Torino, e poi sono andato a Milano e ho conosciuto Luciano Berio, uno dei maestri dell’avanguardia, iniziando a lavorare come suo assistente. Mi ha insegnato a orchestrare, e a trascrivere in musica altre idee: un libro, il volo degli uccelli, i rumori della foresta o le forme delle nuvole e il colore del cielo».
Ha iniziato subito a comporre?
«Suonavo il pianoforte e la chitarra, ma sempre con un approccio creativo. Non volevo diventare solo un esecutore di Mozart e Beethoven. Ho sempre improvvisato, dovevo soltanto trovare una connessione con la mia anima. All’inizio avevo esplorato la musica contemporanea e l’avanguardia, ma ho capito che non era il mio genere».
Qual era il suo genere?
«Musica connessa a tutta la musica con la quale ero cresciuto. Capace di contenere le emozioni e le forme provenienti dalla musica popolare e da quella classica. L’avanguardia era una gabbia troppo stretta per la mia visione».
La musica è una lingua che bisogna imparare per potersi esprimere?
«Ci sono persone che la studiano e altre che riescono a creare musica senza averla studiata. I Beatles avevano creato grandi canzoni senza aver fatto il conservatorio. Ma non puoi fare musica senza averla ascoltata. Devi aver ereditato qualcosa, che sia un patrimonio di musica classica o di rock. I Beatles erano legati al rock arrivato con Elvis Presley, al blues e ad altre tradizioni folk. Il mio bagaglio veniva in parte da mia madre, e dai classici come Bach, Chopin e Schumann, e per il resto dal folk, dal rock e dal jazz. Qualcosa di simile accade quanto leggete: vi può piacere il modo in cui Calvino descrive meticolosamente certe cose, e potreste provare a prenderlo in prestito per farne qualcosa di vostro».
Ha inciso tanti album.
«Diciassette o 18 album, e suono 100 concerti ogni anno, in tutto il mondo. Sono stato di recente in Asia, presto inizierò un tour in Europa tra Budapest, Roma, Germania, Londra, Francia. A volte faccio troppi concerti e devo ritrovare un equilibrio rimanendo a casa, a Torino e nelle Langhe, a Dogliani, dove i miei cugini fanno il vino di famiglia e dove io mi sento a casa».
Ha composto il suo album “Underwater” in montagna, durante la pandemia?
«Ero andato per una settimana in Svizzera con la mia prima famiglia, e al momento del lockdown avevo avuto la fortuna di trovarmi in Engadina, in un paese chiamato Samedan, dove affittavo una casa. Siamo rimasti lì per quattro mesi. Per fortuna, avevo un pianoforte ed ero libero di camminare. Finalmente, non avevo impegni. Non sapevo nulla del mio futuro. Non lo sapeva nessuno».
Pensava di poter morire?
«Non mi preoccupavo di questo. Non sapevo se avrei pubblicato album o suonato concerti. In un certo senso mi sentivo completamente libero di scrivere quello che volevo. Ogni giorno mi dicevo che non volevo perdere questo momento, dovevo scrivere un’idea ogni giorno, buona o cattiva che fosse. Era una sorta di diario. Dopo due mesi ho ricominciato ad ascoltarlo e ho scoperto che ogni 4-5 giorni c’era una buona idea».
Come venivano queste idee?
«Mi sedevo al pianoforte, aprivo il registratore sull’iPhone, e registravo quello che veniva dalle mie mani, dalla mia mente, da quel momento. Se non registravo, questi bozzetti andavano perduti. A volte quando riascoltavo mi sembrava che fossero stati composti da qualcun altro della mia famiglia, non da me».
Come descriverebbe la sua musica?
«La nuova definizione per me e la generazione di nuovi compositori è “neoclassica”, ma le etichette stanno sempre un po’ strette. La mia musica viene influenzata da diverse fonti, può sentirci dentro strati che vengono da Bach e dai Beatles e dal folk».
Non ha mai pensato di cantare?
«No, perché non ho una buona voce. Canto con il piano. Sento la mia voce rappresentata dal piano, e lo suono in maniera melodica».
La casa editrice di suo padre aveva un elemento politico. Lei si occupa di politica?
«Non particolarmente. Ho le mie idee, ma non le mischio con la mia musica, preferisco lasciarla libera. L’espressione musicale crea un mondo che trasmette alcuni elementi di una visione ideale. L’unica cosa politica che ho fatto è stato un progetto con Greenpeace nel 2016, suonando davanti a un ghiacciaio nel Mare del Nord, sulle isole Svalbard».
La sua musica è per giovani o per anziani?
«È per tutti, e sono felice di vedere le generazioni più giovani ai miei concerti. Per me è molto importante. Le persone amano la musica perché è così leggera, è come una magia che crea ogni sorta di emozioni». —