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 2025  maggio 18 Domenica calendario

Quattro motivi per cui ai progressisti non piace l’assalto alla globalizzazione

Pare che Trump stia distruggendo la globalizzazione così come la conosciamo. Non dovrebbe quella parte della sinistra che l’ha sempre criticata esserne felice? È quello che si chiedono certi ambienti liberisti. Invece ci sono almeno quattro seri motivi per cui le cose non stanno così. A cominciare dal fatto che i progressisti hanno sempre tifato per una globalizzazione dal “volto umano” e “intelligente” e non per il neomercantilismo che affascina “The Donald”.
Il primo motivo è il metodo. Trump ha violentemente picconato l’equilibrio dei commerci mondiali minacciando e anche introducendo dazi che, nella versione cinese, sono di fatto un embargo. Come conseguenza ha portato il Pil Usa in negativo nel primo trimestre dell’anno e contratto le stime di crescita globale. Chi vorrebbe questo esito? Il metodo trumpiano, bilaterale, ultimativo e minaccioso, non ha nulla a che fare con l’assetto del commercio internazionale in vigore dal periodo post Seconda guerra mondiale istituzionalizzato in seguito a Bretton Woods e oggi espresso dal Wto, ispirato a mul-tilateralità, unanimità delle decisioni, risoluzione delle controversie e auspicato dal grosso del mondo progressista. Le istituzioni amate dai progressisti non piacquero mai al liberismo Usa, che fin dal dopoguerra, ostacolarono la nascita di un organismo permanente, l’International Trade Organization (Ito), che regolasse il commercio mondiale in modo concertato.
Il secondo motivo è la posizione storica dei progressisti. Politici ed economisti di questa parte non sono stati contrari alla globalizzazione in ogni suo aspetto. Il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz, sicuramente un progressista, ha riconosciuto che la globalizzazione ha aumentato il livello di vita dei paesi più poveri. Ma ha chiesto una «globalizzazione dal volto umano» ( La globalizzazione e i suoi oppositori, Einaudi, 2002) e ha puntato l’indice sulla globalizzazione finanziaria, sulla liberalizzazione dei movimenti dei capitali, pianificata al vertice di Rambouillet nel 1975 a Parigi e avvenuta a partire dagli Anni Ottanta, basata sul quel sistema di controlli e austerità che è passato sotto il nome di Washington Consensus. Il bagaglio di nozioni del mondo progressista di cui Stiglitz raccoglie l’eredità trova fondamento nella filosofia degli accordi di Bretton Woods, non a caso ispirata da Keynes, e che prevede monete “legate” e commerci il più possibile liberi.
Il terzo motivo per cui i progressisti non hanno niente di cui compiacersi per l’azione “rivoluzionaria” di Trump, riguarda la tempistica. Il sospetto che la sinistra globale goda assistendo alle picconate di Trump al commercio internazionale e che aspetti che la Casa Bianca finisca il dirty job, è fuori cronologia. La globalizzazione è già in via di declino: nei fatti la pandemia e la guerra hanno ricomposto le catene di approvvigionamento delle materie prime e, secondo uno studio della McKinsey, il 50% delle maggiori imprese multinazionali ha avvicinato le forniture di materie prime e il 40% ha internalizzato le fasi di produzione.
Il quarto motivo, forse il più importante, riguarda l’ideologia di Trump. Qual è l’idea di fondo che ha mosso la proposta cruciale di Trump sui cosiddetti dazi “reciproci”, abbattuta dai mercati il 9 aprile, e per ora sospesa? Non si può escludere che l’intera vicenda si trasformi un pauroso bluff e che ora si giunga a più miti consigli. Tuttavia il meccanismo, esplicitato dalla Casa Bianca, è tutto tranne che progressista. L’algoritmo con cui si determina il livello dei dazi prevede che il dazio imposto ad un paese sia proporzionale al deficit commerciale degli Usa con quel paese fino ad azzerarlo (vedi le paurose tariffe 46% del Vietnam e 44% sullo Sri Lanka). Deficit zero significa che il paese “feudatario” dice al paese “vassallo” che tutto ciò che ricava dalle vendite negli Usa deve essere impiegato per comprare altrettanta merce di egual valore nei medesimi Usa. Quando fu adottato un sistema così? Dalla Germania degli Anni Trenta che aveva imposto un meccanismo ai paesi satelliti, peraltro meno rozzo di quello di Trump, di “clearing”, sostanzialmente di “compensazione”, in base al quale il valore di quanto importato dallo Stato “dominante” doveva essere bilanciato da eguali importazioni dello Stato “sottomesso”, insomma un “equilibrio degli scambi”. Altro che ricette no global, sembrerebbe più la fase acuta di un neomercantilismo autoritario: tanto più che con l’improbabile gettito dei dazi Trump vuole ridurre le tasse e sta smantellando lo stato sociale.