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 2025  maggio 17 Sabato calendario

Non sono io a essere pessimista, è Dio che mi ha detto "fai schifo"

Non è facile spiegare Shalom Auslander, e non è facile spiegare Feh – il suo ultimo memoir (pubblicato in Italia da Guanda per la traduzione di Katia Bagnoli), che a partire dalla sua mania autodistruttiva e da un’esperienza premorte, torna sulla storia della sua famiglia, della violenza di suo padre e della remissività di sua madre, della yeshiva che avrebbe dovuto educarlo e invece lo ha addestrato al dolore, della sua breve e intensa amicizia con l’attore Philip Seymour Hoffman, al quale lo legava un profondo senso di inadeguatezza, dell’umorismo che pervade tutta la sua, tragicomica, esistenza.
Si può dire questo: “Feh” è un’espressione yiddish che, sostanzialmente, esprime disgusto. Qualcosa ci fa ribrezzo? “Feh!” Qualcosa va male? “Feh!” Pestiamo una cacca di cane? “Feh!” Ma “feh” può anche essere una persona, e “feh” ci si può sentire. Chi si sente “feh” riconosce il “feh” che lo circonda.
C’è qualcosa che non è “feh”, in questa storia, ed è Feh, il libro – che non è un libro, è una messa a nudo, un’operazione a cuore aperto in cui Auslander è sia chirurgo, che paziente, che cadavere da dissezionare di fronte a un attento pubblico di lettori. Comincia tutto da un’espressione proverbiale, anche la nostra conversazione.
Pessimista bene informato…
«In realtà sono un pessimista disilluso. Per molti anni ho bazzicato dalle parti di Schopenhauer/Nietzsche/Cioran, scelta molto popolare tra pseudo-intellettuali, utenti di Twitter e adolescenti senza speranze, ma non mi ha mai aiutato. Ha solo peggiorato le cose a livello di relazioni, salute, lavoro».
Ha cambiato strada?
«Ho avuto una rivelazione. Ho capito che il mio pessimismo non era il risultato di una visione oggettiva del mondo, ma di una certa storia che mi è stata raccontata fin da giovanissimo: sul mondo, l’esistenza, l’umanità e me stesso; l’abbiamo sentita tutti, in qualche versione, a volte viene chiamata “Bibbia”, e si intitola “Fai schifo”. Sei pessimo, sei un peccatore, rubi mele, sei una macchia nell’universo. Sei una schifezza. È la narrazione dominante della nostra specie, raccontata da uomini di Dio, atei, scienziati, scrittori e artisti. Siamo una schifezza».
Come ha influito sulla sua vita?
«Mi ha quasi ucciso, lo racconto in Feh (spoiler)».
Quindi?
«Quindi, di certo non sono ottimista, ma il pessimismo mi ha deluso. Il che è un peccato, perché ero piuttosto ottimista sul fatto che il pessimismo avrebbe funzionato. Ora sono pessimista sul pessimismo, scettico sullo scetticismo e non particolarmente ottimista sull’ottimismo. Ecco perché Dio ha creato la marijuana».
Sicuramente meglio dei prodotti per pulire i nastri delle VHS …
«Vedo che non abbiamo paura degli spoiler, bene. In realtà Feh comincia con me in ospedale dopo essermi avvelenato con un pericoloso farmaco dimagrante, che conteneva il suddetto prodotto chimico».
Non cerchiamo il pelo nell’uovo…
«Il mio psichiatra era del parere che stessi cercando di suicidarmi. Non stavo cercando di suicidarmi, stavo cercando di piacermi. Di potermi guardare allo specchio senza odiare ciò che vedevo. Ma ovviamente nessuna perdita di peso o aumento di massa muscolare (ho anche preso degli steroidi) cambierà mai il modo in cui mi vedo, perché vedo me stesso – e tutti noi – attraverso la lente “Fai schifo”. Non ho mai capito l’espressione “sballarsi”. Per me e per la maggior parte delle persone che ho conosciuto, l’obiettivo dell’assunzione di droghe non era sballarsi, ma tornare alla normalità. Elevarsi da un luogo di oscurità a una mera, come dire, “non-oscurità”. Lo sballo non ha mai avuto senso per me. Credo che per molte persone sia così: non cerchiamo di sballarci, cerchiamo di non sentirci sottoterra».
Vuole parlare di Philip Seymour Hoffman?
«È stato un amico, anche se per troppo poco tempo. Uno che, come me, sentiva di fare schifo. Siamo cresciuti entrambi con la storia di “Fai schifo” – io con la versione ebraica, lui con quella cattolica irlandese, ma sono tutte uguali. È la terribile sensazione, fin dal primo giorno, di non essere all’altezza, di aver fallito in modo irreversibile. Questo ha molto a che fare con il motivo per cui eravamo entrambi tentati dalla droga, che aiuta a mascherare quei sentimenti. Vedere qualcuno cadere vittima di “Fai schifo”, come è successo a lui, è stato uno shock, soprattutto per una persona forte come lui sotto ogni altro aspetto. Ma la storia lo ha ucciso. È morto per una storia, non per l’eroina. La storia di Feh, di “Fai schifo”. Con Phil, il dolore era aggravato dalle nostre somiglianze».
Alcuni di dicono che toccare la morte aiuta ad apprezzare la vita…
«Caspita, sarebbe fantastico. Muore un amico e all’improvviso apprezzo la vita! Che colpo di fortuna! Forse sarò così fortunato che tutti i miei amici moriranno! Ho sempre avuto un’ossessione per la morte, che deriva da un’ossessione per la vita. Ogni volta che sento che qualcuno è morto, una voce nella mia testa – in mezzo a tutte le altre di dolore, tristezza e perdita – dice: “Ah, che fortuna ha avuto ad aver superato la morte. Almeno quella parte è andata”. Immagino la vita come una specie di maratona di venti chilometri, con la morte come traguardo, e lassù in cielo, tutti noi maratoneti esausti siamo piegati, sudati, nauseati e contenti che sia finita. Ci diciamo: “Non lo farò MAI più"».
Non c’è mai un momento di serenità, per lei?
«La vita è una barzelletta: è questo che mi dà serenità. Voltaire scrisse che Dio è un comico che racconta barzellette a una stanza piena di persone che hanno troppa paura di ridere. Ho capito presto nella mia vita che se rido, vinco. Dio può farmi quello che vuole; io, se rido, vinco. È così: un uomo cammina per strada, scivola su una buccia di banana e cade. Urla, impreca, agita il pugno e promette di fare causa a dio. Noi ridiamo di lui. È un idiota. Un altro uomo cammina per strada, scivola su una buccia di banana e cade, poi scoppia a ridere. Di sé stesso, della vita, della forza di gravità, della sua impotenza. E noi lo amiamo istantaneamente. Vogliamo essere come lui. Vogliamo aiutarlo a rialzarsi. Vince».
È una visione molto bella, per un pessimista…
«Me lo ha insegnato Franz Kafka. Mi sento spesso come il suo personaggio nel Processo: condannato da innocente».
In che modo le ha insegnato a ridere?
«Kafka trovava la storia del Processo esilarante, come sospetto trovasse divertente quasi tutto ciò che scriveva. E come potrebbe non esserlo? Un tizio si sveglia, è circondato da poliziotti, ha fatto qualcosa di sbagliato, non gli dicono cosa, e per giunta uno di loro sta facendo colazione. Questa, più o meno, è la vita. Nasci, sei circondato da figure autoritarie che scuotono la testa deluse, e indovina un po’: passerai il resto della vita a lottare per il sostentamento di base. Kafka era un tipo sentimentale, quindi spesso precipitava le sue battute in una cupa tragedia, ma non mi ha mai ingannato. La vita…
… è una barzelletta, lo so. La sua, piuttosto amara: poteva andare diversamente?
«Considerata la famiglia e il mondo in cui sono cresciuto: disfunzionali, soffocanti, religiosi fino all’ossessione, non avevo altra scelta che andarmene. Non parlo con nessuno dei miei parenti stretti da venticinque anni. C’erano solo due esiti possibili: me ne vado e vivo, oppure resto e mi butto sotto un autobus a ventidue anni. In realtà, credo che la mia famiglia avrebbe preferito l’autobus, perché almeno sarei rimasto».
Quindi, niente?
«No, niente. È andata così perché doveva andare così. Se fosse andata diversamente non avrei conosciuto mia moglie e i miei figli, per esempio».
Ecco, loro sembrano equilibrarla…
«Sì, ma la verità è che la mia è una situazione speciale, perché sono eccezionali. I miei bambini molto migliori di quelli di chiunque altro. So che alcuni lettori penseranno: “Ehi, anche i miei figli sono bravissimi!”, e sono sicuro che non siano niente male. Ma diciamocelo: non sono nemmeno lontanamente paragonabili ai miei».
È bello sapere che qualcosa di buono ci sia…
«C’è quello, la scrittura e l’umorismo, naturalmente».
Le fa bene, scrivere?
«La scrittura è terapeutica, non curativa. Immagino sia meglio così, perché se ci curasse, scriveremmo tutti un libro e saremmo a posto. Ed è già abbastanza difficile guadagnarsi da vivere come scrittori così. Sono un insicuro, soffro la concorrenza».
Per essere un insicuro, si mette molto a nudo…
«L’insicurezza è divertente. Non è solo che non mi piace come mi sta una camicia, è che faccio fatica a sopportarmi quando mi vedo allo specchio. È divertente. Forse è l’esagerazione, o forse credo sinceramente che tutti noi ci sentiamo così a volte (spero non spesso quanto me), e se riesco a ridere di me stesso, forse farò ridere anche i lettori. La scrittura e l’arte sono forme di accettazione di sé, e se non ci si mette a nudo non funzionano».
Senza limiti?
«Posso dire questo: non faccio politica e ho poca pazienza per chi ne fa, ma la rabbia che ho provato nei confronti della sinistra negli ultimi anni – da persona di sinistra – nel dettare cosa si può dire e cosa no, cosa si può esprimere e cosa no, chi può scrivere quali personaggi, cosa può essere deriso e cosa è vietato, è difficile da esprimere a parole. Perché, in definitiva, è stato posto un freno al mettersi a nudo, e nell’arte è tutto. L’arte è ghiaccio sottile. Chi vuole un terreno solido dovrebbe rimanere sulla terraferma. O fare politica».
In “Feh” lei si addentra nelle questioni di genere, la spaventa?
«Dalle vacche sacre si ottengono gli hamburger migliori».