la Repubblica, 17 maggio 2025
La diplomazia della sedia vuota
Il bagno turco non è stato inutile. Certo, nonostante gli auspici e gli abboccamenti della vigilia, era difficile aspettarsi qualcosa di buono da un vertice a Istanbul nel quale Zelensky fa dire ai suoi “la squadra negoziale russa è una farsa” e quest’ultima gli risponde “sei solo un clown ignorante”. Ma almeno, diradati i vapori e i rancori, quello che si doveva capire si è capito: Putin non vuole la tregua, non vuole la pace, ma vuole solo l’Ucraina. La sua mezza apertura di gioco, la sua parziale offerta a trattare, la sua ventilata disponibilità a incontrare Zelensky: era solo un pirotecnico giro di Trojka, utile a comprare altro tempo e forse a preparare la prossima offensiva d’estate. 1.077 giorni e 800 mila morti dopo quel fatidico 24 febbraio 2022, “l’operazione militare speciale” ha fruttato all’uomo del Cremlino solo un altro 4 per cento in più di territorio ucraino. E non è un caso che il negoziatore dello zar, il grigio ministro Medinsky, alla fine dei fallimentari colloqui a palazzo Dolmabahce fissa i due punti che stanno più a cuore a Mosca. In gioco ci sono “la denazificazione dell’Ucraina e le questioni territoriali, a partire dalla Crimea”, ed è normale che “guerra e negoziati si svolgano contemporaneamente”. Come dire: la Russia, da brava macchina neo-imperiale, vuole il suolo e non rinuncia al sangue.
Chissà, magari stavolta se ne convinceranno anche le prefiche del defunto Occidente, sempre sicure che la colpa di tutto sia nostra e che siamo stati proprio noi europei, per interposto Boris Johnson, a far saltare la meravigliosa pace dell’aprile 2022, che in realtà sanciva soltanto la capitolazione immediata di Kiev. Lo continuano a ripetere, citando i negoziatori ucraini di allora ma non le secche smentite dei Kuleba di oggi. Trascurano il noto retroscena pubblicato da Foreign Affairs nel 2024, che su quella trattativa fallita diceva testualmente: “The claim that the West forced Ukraina to back out of the talks is baseless”, cioè la notizia che l’Occidente abbia costretto l’Ucraina a tirarsi indietro dai colloqui “è infondata”. Ignorano la lezione di Boris Akunin, il grande romanziere dissidente auto-esiliato in Usa, che ripete: “Putin ha invaso l’Ucraina perché non voleva che un’altra nazione slava vicina di casa diventasse una democrazia occidentalizzata”. Non c’è quindi da stupirsi se tre anni dopo – durante l’inutile ritorno sul luogo del delitto, lungo le rive del Bosforo – i russi abbiano addirittura ventilato agli ucraini l’ipotesi di una “guerra eterna”. Persino loro, ormai, non hanno più remore a chiamare le cose col loro nome. Sono più realisti di noi, che ormai alla Resistenza ucraina riusciamo a garantire a malapena un sostegno a bassa intensità.
Eppure, mentre il bagno turco finisce, in Europa qualcosa ri-comincia. Il summit di Tirana ripete e consolida un formato incoraggiante, se non altro perché dimostra che sul fronte occidentale stavolta c’è qualcosa di nuovo. La coalizione dei volenterosi sarà pure una velleitaria parodia dell’unione che servirebbe, ma un barlume di ruolo geo-politico se lo sta ritagliando, per di più col rientro in gioco di una Gran Bretagna sorprendentemente più comunitaria e meno yankee. E qui ci sono immagini-simbolo, che pesano e contano. Ai funerali di papa Francesco, tra i marmi di Michelangelo e gli affreschi di Raffaello, la foto dell’incontro fra Trump, Zelensky, Macron e Starmer, per quanto fugace, ha voluto pur significare qualcosa. Tre giorni dopo, a Parigi, la foto di Macron con il neo-cancelliere tedesco Merz, per quanto azzoppato dai franchi tiratori del Bundestag, ha certificato la riaccensione del motore franco-tedesco. Una settimana fa, su quel treno per Kiev, la foto di Macron, Merz e Starmer – uguale a quella di tre anni prima tra lo stesso Macron Scholz e Draghi – ha sancito la condivisione di una politica estera che non tradisce Zelensky e non arretra di fronte ai deliri di onnipotenza di Trump e di Putin. Domenica scorsa, nella capitale ucraina, al francese, all’inglese e al tedesco si aggiunge anche il presidente polacco Tusk: tutti insieme depongono fiori sul sacrario delle vittime della sporca guerra putiniana, e tutti insieme, subito dopo, parlano al telefono col commander in chief americano, concordando l’ultimatum alla Russia e l’annuncio di eventuali, nuove sanzioni. E infine la stessa identica scena si ripete nella capitale albanese: di nuovo Macron, Merz, Starmer, Tusk, con Zelensky, chiamano Trump, per fare il punto sul nulla di fatto degli incontri in Turchia e programmare le prossime tappe del confronto-scontro con la Russia. È chiaro che a rendere più aleatorio e incerto questo inedito protagonismo europeo contribuisce sempre il titanismo dello sceriffo di Washington, che insiste a dire “non succede nulla finché non ci incontriamo io e Putin”. Ma è interessante, e forse persino promettente, che i volenterosi si muovano di concerto col tycoon d’Oltreoceano, pronto ad ascoltarli e quindi a legittimarli. Non è poco, se pensiamo al rovinoso cupio dissolvi nel quale era precipitata la Ue solo quattro mesi fa, dopo il trionfo trumpiano, con tutto il carico di destabilizzazione ideologica, politica ed economica che si era portato dietro.
In questo scenario inedito, manco a dirlo, brilla un’assenza. Clamorosa, se non vergognosa. Giorgia Meloni non c’è. Non c’era a San Pietro, non c’era all’Eliseo, non c’era sul treno per Kiev, non c’era al sacrario della capitale ucraina. E non c’era durante le due call del quintetto con la Casa Bianca, ieri e domenica scorsa. La Sorella d’Italia è scomparsa dalla scena geo-politica. Non se la può cavare dicendo che lei con i volenterosi non si siede al tavolo, perché non manderà mai i suoi soldati in Ucraina: non è di questo, adesso, che stanno parlando i suoi colleghi capi di Stato e di governo. E non può accettare come premio di consolazione il grottesco inchino dell’amico albanese: mentre i suoi partner provano faticosamente a salire sul carro della Storia, la Cenerentola della Garbatella monta in carrozza con Edi Rama? Oggi e domani, tra l’arrivo di Merz e la cerimonia di insediamento di Leone XIV, forse il suo quarto d’ora di celebrità riuscirà a rimediarlo, e magari questo le basterà a ribadire che con lei “l’Italia ha racquistato centralità e prestigio in tutto il mondo”. Ma è un rito stanco, e francamente un po’ patetico. Lo vede un cieco che, nei consessi che contano, il tricolore è ammainato. E il posto del Belpaese, al fianco dei Paesi fondatori dell’Unione, lo sta prendendo adesso la Polonia. La verità, amarissima per la premier, è che questa assurda “diplomazia della sedia vuota” non è una scelta che ha voluto, ma un’esclusione che ha subito. E oggi paga il prezzo della sua ambiguità. A forza di restare in mezzo al guado atlantico, tra la nuova Amerika dell’amata tecno-destra e la vecchia Europa dell’esecrata tecnocrazia, Meloni cade nel vuoto, e insieme a lei l’Italia. Credevamo fosse un ponte, invece era una botola.