La Stampa, 17 maggio 2025
Il primo round va al Cremlino ma Zelensky non è sconfitto
Il sipario cala tristemente su Istanbul senza pace in vista. Il palcoscenico era semivuoto. Vladimir Putin aveva tenuto sulla corda tutti, compreso Donald Trump, senza mai aver avuto l’intenzione di venire a parlare di pace sul Bosforo. O d’incontrarvi Volodymyr Zelensky. O di avviare un negoziato per sospendere la guerra. Per far diplomazia e negoziare una tregua seria avrebbe dovuto mandare il fidatissimo capo della diplomazia, Sergei Lavrov. Ha invece inviato una delegazione semi-tecnica, capitanata dall’ex-Ministro per la Cultura, Vladimir Medinsky, altrettanto fedele, ma meno ferrato in affari internazionali. Con un compito ben preciso: ribadire condizioni inaccettabili all’Ucraina e così continuare la guerra. Missione compiuta e, fra le righe, ha anche detto di no a Trump.
Russi e ucraini si sono finalmente visti faccia a faccia. Si sono parlati. Per la prima volta dopo tre anni di guerra e troppe vite spezzate per tenerne il conto, ma sulla pace è stato lo stesso un dialogo fra sordi. Fra una delegazione russa che non aveva né il desiderio né l’autorità per parlarne, e proponeva la resa, e una delegazione ucraina che rifiutava la resa pur desiderando la pace. C’era poco altro da dirsi. L’incontro è durato meno di due ore. Non inutile: ha prodotto uno scambio di mille prigionieri per parte. Una goccia nel mare delle sofferenze che la guerra di Putin sta infliggendo ai due popoli, ma uno spiraglio di sollievo per duemila famiglie. Niente altro, purtroppo.
La fine della guerra ucraina rimane dunque inafferrabile. Chi l’ha cominciata, la Russia, non la vuole finire. Dopo un’intensa mobilitazione da Washington a Kiev, dal Golfo a Istanbul, dei leader europei e del Presidente americano, cui si univano il rinnovato appello del Pontefice Leone XIV e persino flebili voci cinesi e brasiliane, durante la visita di Luiz Inácio Lula da Silva a Pechino, la diplomazia internazionale torna al punto di partenza. A parte qualche acrobazia verbale per compiacere Trump, Vladimir Putin non si è smosso di un millimetro dalle posizioni mantenute nel corso di questa sua lunga “operazione speciale”. Ha incaricato Medinsky di ripetere le condizioni enunciate nell’estate del 2022, chiedendo che l’Ucraina abbandoni completamente le quattro regioni che la Russia ha già incamerato nella Costituzione ma non ancora interamente conquistato: gli oblast di Donetsk, Luhansk, Zaporizhzhya e Kherson. Il “negoziato” di Istanbul è cominciato con la richiesta a Kiev di cedere anche dei pezzi di territorio, città, villaggi, che l’Ucraina sta difendendo strenuamente. La controproposta ucraina di cessate il fuoco immediato, ed incontro faccia a faccia Putin-Zelensky, è stata ignorata. Si è salvato solo un parziale scambio di prigionieri di guerra, anche se Kiev l’aveva proposto totale. Buon per loro, ma risultato modesto.
Il grosso impegno diplomatico di Istanbul si risolve così in poco più di un buco nell’acqua. Qual è il bilancio dei vari attori? A caldo, è favorevole a Putin. Ha ottenuto quello che voleva. Non voleva venire e non è venuto. Non vuole negoziare il cessate il fuoco e non c’è un cessate il fuoco. Ha aggirato con successo un accumularsi di pressioni e può continuare sulla sua strada. Ma anche Volodymyr Zelensky non ne esce male. Ha dimostrato la massima buona volontà negoziale. Era pronto a sedersi al tavolo – se ci fosse stato l’interlocutore – e ne ha approfittato per una visita bilaterale ad Ankara. Ha rimosso la precondizione del cessate il fuoco a negoziati, sia a livello di leader che tecnico. Nessuno – leggi Donald Trump – può più dirgli di essere ostacolo alla pace. Adesso ha buon gioco a reindirizzarlo al Cremlino.
Istanbul, inteso come grande vertice bilaterale russo-ucraino, nasceva essenzialmente per iniziativa del Presidente americano. Trump era pronto ad andare di persona. Aveva fino all’ultimo manifestato “ottimismo” sulla partecipazione russa, inviando sul posto il Segretario di Stato, Marco Rubio, in aggiunta a Witkoff e Kellog. La diplomazia americana era dunque spiegata in forze. Per essere testimone di uno scambio di prigionieri? La realtà è che Vladimir Putin non si è peritato di dire di no a Donald Trump. Il quale, tornando a Washington dopo il viaggio trionfale nel Golfo, non indugia certamente sull’invito declinato. La nozione di insuccesso, diplomatico in questo caso, non esiste nel lessico trumpiano, vedi elezioni del 2020. The Donald arriva subito alla conclusione opposta: la pace in Ucraina si farà soltanto quando incontrerò direttamente Putin – o solo così capirò perché la pace non è possibile.
Questo è un assist al Presidente russo. Il preciso obiettivo che Vladimir Putin insegue dall’elezione di Donald Trump è di negoziare direttamente con lui non solo l’Ucraina, ma l’intero assetto della sicurezza europea senza ucraini ed europei al tavolo, naturalmente. Ove il Presidente americano acconsentisse – finora malgrado i frequenti messaggi concilianti alla volta del Cremlino se ne è ben guardato – andremmo incontro a ricadute imprevedibili non solo per l’Ucraina ma per l’Europa e per la Nato. Un conto è andare nel Golfo a fare affari prima di mettere piede in Europa, San Pietro per le esequie di Papa Francesco a parte. Un altro sarebbe un vertice bilaterale con Putin prima degli incontri chiave di giugno, G7 di Kananaskis e Alleanza Atlantica dell’Aja. La telefonata di Trump ai leader dei “volenterosi” dopo il “plenum” europeo di Tirana, fa però sperare due cose: che la bilancia del sostegno occidentale continui a pendere a favore dell’Ucraina e che il Presidente americano non volti le spalle ai vecchi alleati. E che non tutte le ciambelle russe riescano col buco.