La Stampa, 17 maggio 2025
L’ombra di Peter Thiel dietro Donald Trump
Pubblichiamo un estratto da The Presidents di Monica Maggioni (Rai Libri), indagine sulle dinamiche di potere negli Usa, pilotate da un gruppo di miliardari tech che lavorano per un mondo con meno democrazia
Le foto vanno guardate con grande attenzione. Le foto parlano.
Mercoledì 14 dicembre 2016. Il neoeletto presidente Trump chiama a raccolta intorno a sé i giganti del tech. Ci sono praticamente tutti: Larry Page di Google, Jeff Bezos di Amazon, Sheryl Sandberg di Facebook. La foto, pubblicata dallo staff del presidente, ritrae – andando verso destra – Peter Thiel, Tim Cook, CEO di Apple, Safra Catz di Oracle e Elon Musk. E rivela un dettaglio chiave, specie alla luce di quel che sta accadendo oggi. Il cartellino con il nome recita “Elon Musk”, e sotto “Tesla”. Elon in quel momento è già molto, molto più che semplicemente il capo di Tesla, ma è così che Trump lo vede. Peter Thiel, invece, non ha nessuna indicazione sotto il nome. Basta quello. Peter Thiel per Trump è qualcuno così importante che non servono altre precisazioni. L’incontro l’ha organizzato lui, dopo aver generosamente finanziato la campagna di Donald Trump. Ha creduto in lui fin dall’inizio e, nel mondo del tech, è uno tra i pochissimi. Tra lui e Musk, al solito, si registra qualche frecciatina. D’altronde, il suo ex socio – Thiel lo aveva eliminato da PayPal con un colpo di mano – è stato molto critico con il candidato Trump durante tutta la campagna elettorale e ha appoggiato la Clinton. A dividerli la visione delle politiche ambientali, al punto che Musk arriva a dichiarare pubblicamente che Trump «non ha il tipo di carattere che rispecchia quello del popolo americano».
Thiel invece adesso è nella stanza dei bottoni e anche lì, nel grattacielo sulla Fifth Avenue, tutto ori e specchi come piace a Trump, sembra piuttosto a suo agio.
Trump è in piena operazione di seduzione verso i leader della Silicon Valley: «Non c’è nessuno come voi al mondo», lo dice e li fissa negli occhi, uno per uno, «e tutto quello che posso fare è aiutarvi ad andare avanti, siamo qui per voi. Potrete chiamare il mio staff, me stesso, non fa alcuna differenza. Non c’è alcuna gerarchia».
Incurante dei mutamenti nell’equilibrio politico americano, Palantir (la società di controllo dei dati che collabora con le agenzie di intelligence di tutto il mondo, n.d.a.) fa profitti straordinari per due decenni. Durante la prima amministrazione Trump, riceve contratti enormi con il governo. Peter Thiel siede formalmente nell’Intelligence Advisory Board del presidente. La sua influenza è continua e, spesso, sotterranea.
Il suo percorso filosofico non è mutato, si è solo ulteriormente radicalizzato. Il disgusto per il progressismo, il wokismo, il conformismo di un certo mondo è una specie di ossessione. Si convince che ci deve essere necessariamente una élite a più alto quoziente intellettuale in grado di proiettare l’esperienza umana nel futuro. Ma il progetto non prevede la salvezza dell’intera umanità: piuttosto si tratta di preservare una élite che rappresenti nel futuro l’esperienza del passaggio degli umani sulla terra.
Tolkien, gli elfi, la fantascienza: contengono spesso il racconto di un piccolo gruppo illuminato che si salva. È un’idea che ritorna e che spesso ricorre nei blog di Curtis Yarvin. Yarvin è un altro personaggio importante di questo racconto: un quarantottenne ex programmatore e blogger di successo che tende a riscrivere la storia e rende popolari i termini chiave della nuova destra americana. Ha atteggiamenti da guru e un grandissimo seguito sul web. Succede spesso di sentire i giovani della nuova destra chiamarlo Lord Yarvin o “il nostro profeta”. Ha scritto un saggio in cui si definisce dark elf, parte di una razza culturalmente superiore: sono spesso fantasie legate all’occulto e al dominio che sembrano riecheggiare i miti nazisti novecenteschi. Thiel è affascinato da alcuni dei saggi di Yarvin, specie quando parla del fallimento delle democrazie e sostiene che è venuto il momento di sostituire la forma democratica con altri modelli di organizzazione dello Stato. Yarvin si dice apertamente a favore di strutture in grado di operare come un’azienda o una dittatura. Peter Thiel ne è sedotto.
Il pensiero di questa nuova destra fa proseliti proprio negli anni in cui i media mainstream occidentali raccontano al mondo, in coro, l’ascesa dei miliardari del tech come un esempio di illuminazione e progresso collettivo. (L’ho fatto anche io in un lungo viaggio dentro la Silicon Valley). Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook, viene celebrato come il campione della libera espressione del pensiero e sembra convincente con la sua divisa fatta di t-shirt grigie dall’aria finto modesta e l’espressione da ragazzino inerme. Ma qualcosa non torna nella coerenza del personaggio e lo si comincia a intuire nel 2016, quando si rifiuta di intervenire sull’algoritmo di Facebook per evitare che i bot russi possano influenzare l’andamento della campagna elettorale americana. L’influenza russa (specie nel web) verrà ammessa da tutti e spianerà la strada proprio alla vittoria di Trump. Solo molti anni dopo Zuckerberg farà una lieve autocritica ammettendo che non regolamentare Facebook in quel momento sia stato un errore.
Così, proprio in quegli stessi anni, lungo le strade di una California sempre più autoreferenziale, nei salotti dove scorrono champagne e ricchezza, si stanno strutturando relazioni, legami, connessioni tra un gruppo di giovani così ricchi – miliardari – potenti, tecnologicamente superiori da potersi permettere il lusso di progettare una nuova organizzazione del mondo. Nulla che si debba per forza realizzare subito. Per il momento basta discuterne, elaborare teorie più o meno filosofiche. Più o meno inquietanti.
Proprio Mark Zuckerberg è una delle persone che continua a subire enormemente l’influenza di Peter Thiel. Thiel ha investito 500mila dollari in Facebook. Dopo la quotazione in borsa del 2012, sono diventati 600 milioni e lui rimane nel board della società di Zuckerberg fino al 2022. Thiel è al centro della rete e delle connessioni. Decide di finanziare amici, imprese e nuovi talenti in grado di cambiare il mondo. Lo dice lui stesso: «Ho cercato di finanziare ricerche intellettuali che dessero un senso all’idea di futuro». Non sta semplicemente facendo miliardi, vuole ridisegnare il futuro. Anche il nostro, che di qua dall’oceano scriviamo regole e non capiamo quel che accade.
Bisognerà aspettare di arrivare all’inaugurazione della presidenza USA numero quarantasette, in un gelido giorno di gennaio del 2025, per cominciare ad aprire gli occhi. Ma il business, e l’accumulo di miliardi, continua a essere il fattore trainante del gruppo dei miliardari tech. Tranne per uno. Per il ragazzino bullizzato e profondo che si è sempre sentito contrarian: per Peter Thiel, colui che non ha mai perso il gusto di sentirsi il burattinaio di una grande massa di esseri che ritiene inferiori.
«Trump è, per molti versi, il perfetto avatar per il progetto politico che Peter Thiel sta perseguendo» sostiene Max Chafkin, autore della biografia di Peter Thiel, The Contrarian. «È il candidato in grado di dire l’indicibile»: Trump è in grado di far saltare i riti e i meccanismi su cui si tiene in vita l’establishment politico, ha l’energia necessaria a spazzare via quello che resta dell’ordine mondiale, che da molto tempo ha mostrato i suoi limiti, e sembra aver esaurito il suo ciclo.
Di nuovo, nulla è un caso. Nei discorsi di Thiel ritorna il Leviatano, Hobbes, la costruzione di un sistema assolutistico in cui il monarca sia libero di agire sciolto da tutte le forme di limitazione e regolamentazione. Un monarca in grado di tenere sotto controllo la naturale tendenza alla violenza e al conflitto insita nel genere umano. Un mondo in cui una covenant di uomini straordinari possa agire in totale libertà, senza le limitazioni e le regolamentazioni dei governi e delle istituzioni. Le regole hanno prodotto l’attuale arretratezza tecnologica degli Stati Uniti, sostiene Thiel, e – non a caso – l’unico ambito che si è sviluppato enormemente è quello legato a internet, dove nessuno è ancora riuscito a imporre regole. «Nel momento più caotico della storia americana moderna, a Thiel sembra di vedere una via per uscire dalla stagnazione». Quella via si chiama Donald Trump.
Ne scrive la penna arguta e pungente di Maureen Dowd del New York Times in un ritratto del gennaio 2017, qualche giorno dopo il primo giuramento di Trump come presidente degli Stati Uniti: «Gli altri possono anche pensare che il rischio sia che Trump si spinga troppo oltre. Peter Thiel pensa che lui non farà abbastanza». Però l’investimento su Donald Trump la prima volta non funziona troppo bene. Presto l’idillio si interrompe. Il filosofo miliardario è in sintonia con alcune delle politiche di Trump ma non sopporta il caos che Trump genera intorno a sé. Non vede lucidità. Nell’agire di Trump c’è troppa contraddizione che distrae dall’obiettivo finale. Oltretutto è profondamente critico con il modo in cui l’amministrazione Trump gestisce il Covid e annuncia di volersi trasferire a vivere in Svizzera. Non lo farà. Ma Thiel si inabissa di nuovo, preso dal far denari investendo sulle imprese frontiera della tecnologia e della ricerca biomedica, occupato con le conferenze da filosofo, ossessionato dalla morte e dall’apocalisse.
(…) Usa sempre più spesso un linguaggio dai toni esoterici ma ribadisce che «la cristianità è il prisma attraverso cui legge il mondo» e di tanto in tanto nei suoi discorsi riecheggia la frase che aveva pronunciato a Libertopia, nel 2010: «Il governo è così fondamentalmente il male e negare la natura malvagia del governo è come negare l’esistenza del demonio».
A tratti però decide di ributtarsi nella mischia con il suo progetto di far saltare le regole, le istituzioni che soffocano la crescita. Finanzia qualche iniziativa politica, ma non ci sono prove di sostegno allo sforzo di rielezione di Trump fino al 2020. Eppure, nelle elezioni di midterm del 2022 Thiel si rivela il kingmaker repubblicano che investe circa 35 milioni di dollari per sostenere sedici candidati repubblicani a livello federale. Ha intuito che il momento è propizio. Il malessere percepito, i bianchi rimasti indietro, le istituzioni internazionali che arrancano. I democratici allo sbando con un probabile candidato presidente fragile, anziano e pieno di guai. Dunque Peter ha scelto sedici cavalli su cui puntare. Dodici vincono. Vengono eletti.Tra loro c’è il giovane J.D. Vance, la vera scommessa.