Avvenire, 17 maggio 2025
Quegli architetti che si opposero al Mao urbanista
Mao avrebbe amato questa nuova Shanghai, dinamica, che attira i giovani e che protegge turisticamente i condomini popolari a due piani della Concessione Francese e innalza grattacieli (vuoti) per uffici. Lui odiava Pechino, l’avrebbe distrutta, cancellata come andava cancellato il passato retrogrado. Una mostra, molto interessante in questi giorni a Shanghai al Q-Can Art Museum su due grandi architetti e archeologi, la coppia dei Liang, Liang Sicheng e Lin Huiyin, fa emergere questo scontro che ha determinato per buona parte la storia delle città cinesi dalla rivoluzione di Mao in poi. I due erano cresciuti in una Cina ricca di fermenti, lei vestita alla maschietta secondo la moda degli anni ’30, lui con gli occhiali alla Le Corbusier, vivevano nella Cina che si ispirava al bisogno di un rapporto più aperto al mondo, come dettava uno dei grandi ispiratori di allora, Lu Xun. Erano espatriati, viaggiavano, si erano formati alla prestigiosa Penn State negli Stati Uniti e poi avevano deciso di tornare in Cina per la passione che li accomunava, quella di salvare e repertoriare l’immenso patrimonio architettonico del loro paese. A quel tempo i giapponesi se ne rivendicavano esperti e negavano che potessero esservi tracce ancora dei templi Tang, la grande civiltà che per tre secoli dal 700 dopo Cristo in poi aveva costruito un rinascimento in tutti i campi, poesia, arte del governo, architettura e religione. Era la Cina che aveva accolto e filtrato il buddhismo e lo aveva reinterpretato, mescolandolo ai culti locali, ravvivandolo con scene della vita quotidiana e di corte. I Liang cominciarono a viaggiare nelle zone più remote, ai limiti del deserto e in condizioni molto difficili. I luoghi in cui arrivavano erano ai limiti dell’Impero, i templi abbandonati. Misero in piedi una agenzia di ricerca e repertoriarono duemila templi, ne fecero il rilievo, li fotografarono, ne compresero lo sviluppo in una coerente costruzione di canoni e modelli. Scoprirono il tempio Tang che i giapponesi negavano, scoprirono nello Shanxi una pagoda in legno dell’anno mille con un immenso Buddha in piedi. Pubblicarono un atlante fondamentale per comprendere l’intero paesaggio che popolava la Cina, le tecniche costruttive, l’architettura vernacolare, lo sviluppo di un linguaggio che partiva dalle influenze indiane e del primo buddhismo che aveva attraversato il centro Asia e l’Himalaya. Erano instancabili, ma l’operazione era parte del loro patriottismo, anche se erano degli internazionalisti, collegati con Le Corbusier, Nyemeyer, il Bahuaus. Arrivò la guerra e i due con i loro bambini si rifugiarono nella loro regione d’origine, lo Yunnan. Vi passarono nove anni tra bombardamenti dei giapponesi, una vita ridotta all’essenziale, ma anche la risistemazione delle loro ricerche. Quando finalmente la guerra fu vinta dall’alleanza tra Mao e i nazionalisti, si ritrovarono chiamati a nuove responsabilità. Liang Sicheng cercò di convincere Mao dell’importanza del patrimonio immenso del paese, a cominciare dalla stessa Pechino. Non solo Mao non l’ascoltò e cominciò a demolire le mura storiche e intere parti del centro – una città, Pechino, che era un modello di bellezza da duemila anni, ma accusò l’architetto di essere un reazionario. Gli vennero chiesti compiti per scrollarsi di dosso le accuse, il monumento ai caduti della rivoluzione, il “logo” del partito, ma allo stesso tempo di confessare pubblicamente le proprie colpe. Entrambi dovettero sottoporsi alle purghe negare i propri anni di ricerca. Lyn Huiyin mori di tubercolosi nel 59, lui le sopravvisse per un ventennio e insegnò per molto tempo nelle facoltà di architettura della capitale. Oggi viene riabilitato e il suo atlante considerato un capolavoro. Alcune delle pagode da loro scoperte per fortuna hanno resistito fino ad ora e oggi fanno parte dei giri turistici alle sorgenti dalla civiltà cinese. Mi fa da guida una giovane architetta entusiasta, Bayan, che proviene dalle regioni Uighur, dallo Xinjang. Mi ci ha voluto portare e insiste perché io vada a vedere la magnifica Pagoda in legno dell’anno mille che si trova nello stato dello Shanxi, a tre ore di volo da Shanghai. La mostra, interattiva, con una installazione immersiva entusiasmante, ignora l’ultima parte della vita dei Liang, la loro sfortuna, la cancellazione della storia auspicata da Mao. Anche l’amica studentessa ne è ignara, d’altro canto la versione ufficiale è quella che le fanno studiare. Ma è sempre così, la Cina di oggi cerca di saltare di piè pari la direzione del “grande navigatore”, la rivoluzione culturale, il grande balzo in avanti con quaranta milioni di morti di fame. D’altro canto, basta guardarsi intorno per ignorare tutto questo. Il market-leninismo oggi somiglia al boom american degli anni ’80 e il paese è prospero e i giovani guardano al futuro. Oppure al passato, che torna, mitigato, accettato, che rivendica una cinesità e una storia originalissima. Come per i Liang ci sono centinaia, migliaia di figure simili – represse, condannate per cinquant’anni all’oblio – ancora da scoprire in tutti i campi. C’è una versione ufficiale che vuole appianare tutto, che ricostruisce continuamente il passato e il presente negando tutti i conflitti che vi sono stati. Come se la dialettica avesse perso di fronte all’eterno confucianesimo.