Libero, 17 maggio 2025
Intervista a Gemma Calabresi
Una cosa è certa: Gemma Calabresi è una persona lieta. Lo dicono i suoi occhi vivaci e la sua voce placida. E lo dice la sua profonda umanità, sempre desta nel rapporto con l’altro. La sua è una storia di sofferenza, ma anche di speranza. La mattina del 17 maggio 1972, suo marito Luigi Calabresi venne ucciso in un attentato terroristico di un commando di Lotta Continua. Commissario capo dell’Ufficio politico della Questura di Milano, Calabresi era stato – erroneamente – ritenuto colpevole dell’omicidio di Giuseppe Pinelli, anarchico vicino a gruppi della sinistra extraparlamentare. La morte del marito ha segnato un prima e un dopo nella vita di Gemma Calabresi. Aprendo una ferita, attraverso cui è poi passata una luce inaspettata.
Si ricorda qualcosa di quella mattina?
«Sembrava una mattina come tante altre. Avevamo bevuto il caffè e Luigi era uscito. Poco dopo lo vidi ripassare in anticamera e notai che aveva cambiato cravatta, se n’era messa una bianca. Mi chiese come stesse con quella e io gli risposi che stava bene. Mi disse poi: «Questo è il simbolo della mia purezza». Non riuscì a chiedergli spiegazioni, perché lui da buon romano era sempre in ritardo».
Poi ha capito il significato di quelle parole?
«Sì, era come se mi stesse dicendo: “mi hanno calunniato, ma io sono innocente, sono puro”. Quelle parole sono state una sorta di testamento verbale per la nostra famiglia. Dopo averle pronunciate, Luigi uscì di casa per l’ultima volta».
A quel punto che cosa accadde?
«Arrivarono a casa nostra diverse persone: un amico di mio padre, un vicequestore e dei colleghi di mio marito. Nessuno sapeva dirmi come stesse realmente Luigi. Poi entrò il mio parroco. Lo pregai: «Don Sandro, dimmi la verità». Lui, pallidissimo, senza emettere alcun suono con la voce rispose: «È morto». Improvvisamente mi accasciai sul divano, in preda a un dolore lacerante. Pensai: «Più niente ha senso».
Si sentì abbandonata.
«Esatto, mi prese una forte angoscia e solitudine. Poi accadde una cosa inaspettata. Iniziai a percepire silenzio tutt’intorno. Non sentivo più il campanello, la gente che parlava e piangeva. Avvertii in me un’assurda pace interiore, una grande forza. Pensai: io e i bambini ce la faremo. Poi chiesi a Don Sandro di recitare insieme a me un’Ave Maria per la famiglia dell’assassino».
Da dove proveniva quella forza?
«Sono certa che non fosse farina del mio sacco. Non potevo essere io tanto generosa in un momento di tale disperazione. Era qualcuno che testimoniava attraverso di me. Io quella mattina ricevetti da Dio il dono della fede».
Che cos’è la fede per lei?
«Prima di quell’episodio, io ero già credente. La mia, però, era una religione per abitudine, per tradizione familiare. Da quel giorno la fede divenne una scelta. Iniziai a capire che la fede non è qualcosa di separato dalla vita, ma coincide con essa».
La fede le ha permesso di perdonare gli assassini di suo marito.
«Sì, certo. La fede non toglie il dolore, ma lo riempie di significati. La fede non ti fa sentire sola, ma soprattutto dà la speranza, che è ciò che ci fa camminare, anche quando capitano delle cose tragiche. Allo stesso tempo, però, credo che anche senza fede uno possa perdonare con la propria umanità: basta volerlo».
Ha avuto dei momenti di difficoltà in questo percorso di perdono?
«Sì, a volte il dolore ha avuto la meglio. Soprattutto nei primi mesi, mi capitava di fare fantasie di vendetta. Immaginavo di mettermi una parrucca e di frequentare i covi dei terroristi: quando qualcuno avesse detto “ho ucciso io Calabresi” avrei estratto la pistola e gli avrei sparato. Erano pensieri che mi facevano stare male. Col tempo ho capito che odio e rancore ti divorano, non vedi più niente di bello nella vita».
Che cosa ha sostenuto il suo percorso?
«In questi anni ho capito che il perdono è un dono. Lo dice la parola stessa. E allora: un dono non lo dai con raziocinio, lo dai con il cuore. Ho deciso che avrei perdonato senza aspettarmi nulla in cambio. In questa scelta sono stata aiutata da alcuni segni, avvenimenti che capitano e che dobbiamo riconoscere».
Ne racconti uno.
«Uno dei segni più importanti lo riconobbi in tribunale, durante una pausa del processo per la morte di Luigi. Vidi un imputato andare in fondo all’aula a salutare il figlio. Lo abbracciava con un’infinita tenerezza. Quella scena mi colpii molto. Non pensai: “fa il carino in famiglia e manda a uccidere la gente”. Piuttosto: “lui è anche un buon padre”. Per la prima volta lo vidi con occhi diversi, guardai a tutta la sua umanità».