Corriere della Sera, 16 maggio 2025
La pianista Giuseppina Torre: «Schiaffi, sputi, umiliazioni: con mio marito è stato un inferno. Una frase mi fece capire che dovevo fuggire: ora sono rinata»
«A tutte le donne che, come me, hanno conosciuto il buio della violenza. A chi ogni giorno lotta per uscire dal silenzio, per rompere le catene della paura, per ritrovare la propria voce. A chi è ancora dentro il tunnel e cerca la forza per fare il primo passo. A chi l’ha fatto e sta imparando a camminare di nuovo, verso la libertà». Pianista e compositrice siciliana, tre album alle spalle, Giuseppina Torre ha scritto – con Barbara Visentin – Un piano per rinascere (edito da Solferino). La dedica del libro svela subito la sua storia personale, un amore tossico che si è trasformato in anni e anni di abusi.
Lei aveva 14 anni, lui 17. Vi siete conosciuti e piaciuti subito.
«Ci incontrammo a una festa. La sua sicurezza nel muoversi e il calore che emanava furono folgoranti. Mi riempiva di complimenti».
Lei a 17 anni vinse un premio per un testo su Pirandello. Era il suo momento e lui lo rovinò.
«Era di umore nero, litigammo, provai a cercarlo ma lui era scomparso. Il giorno della premiazione arrivai in auditorium per ritirare la borsa di studio con il morale sottoterra».
Qualche giorno dopo si ripresentò.
«Come se niente fosse, senza alcuna spiegazione. Questo suo sparire improvviso e poi chiudersi nel silenzio diventarono uno dei suoi leitmotiv».
La sua era una tecnica.
«Sparizioni e mutismi erano una costante che mi tenevano sempre sul filo del rasoio senza darmi né certezze né sicurezze. Mi istillava mille dubbi, ma l’orizzonte cambiava all’improvviso con grandissime manifestazioni di amore perché era bravissimo nei gesti eclatanti. Ma così tutto era sempre relativo, si passava da zero a mille, e poi di nuovo a zero in un secondo».
Facile dirlo dopo, ma c’erano dei segnali che potevano rivelare la sua vera natura?
«C’erano già dei segnali sin da quando si era ragazzi, però presa dall’infatuazione, dalle farfalle che ti volano nello stomaco, non gli ho dato il giusto peso. È stato il primo vero amore giovanile e il mio unico amore perché un sentimento così forte, così totalizzante, non l’ho più provato per nessuno. E poi era la Sicilia degli anni Ottanta: l’educazione dell’epoca, il contesto sociale lasciavano intendere che la gelosia fosse una manifestazione di amore».
All’inizio le violenze erano soprattutto psicologiche, i ricatti emotivi, rovinare i suoi successi mettendosi al centro dell’attenzione.
«Quando vinsi un premio a Los Angeles lui disse che voleva lasciarmi perché mi davo delle arie e non pensavo a nostro figlio. E poi diceva sempre che ero una donna da rottamare, fisicamente e professionalmente. Faceva di tutto per farmi sentire vecchia. Un tempo quando mi chiedevano l’età sviavo sempre, invece adesso sono orgogliosa della mia età, dei miei 57 anni».
Anche il sesso era motivo di attrito.
«Per lui era un’esigenza quotidiana e mi metteva parecchia ansia, facendomi sentire obbligata. Era diventato un cartellino da timbrare».
Poi arrivano anche le botte. Sputi, schiaffi e calci.
«La seconda volta che è successo, quando lui ha risposto a mio padre al telefono e gli ha detto che non sapeva dove fossi, ho visto la morte negli occhi. È stato anche il momento in cui ho deciso di andarmene di casa: se lo aveva fatto una seconda volta, lo avrebbe fatto anche una terza, una quarta, una quinta...».
Quando lui capisce che la sta perdendo la violenza esplode.
«Mi controllava il cellulare, insisteva per fare sempre videochiamate quando ero via per controllarmi. Poi bloccò le carte di credito e prelevò tutti i soldi che c’erano sul nostro conto in comune. Fece sparire anche tutti i miei vestiti dicendo che c’era stato un furto e un ladro aveva portato via solo le mie cose, tutti gli abiti che indossavo ai concerti».
Tra i tanti, quale episodio l’ha ferita di più?
«Le esperienze dei due aborti prima che arrivasse nostro figlio. Sono esperienze che non auguro a nessuno. Mi faceva sentire una nullità non solo come persona ma anche come donna, nemmeno in grado di portare a termine una gravidanza. Mi sentivo un’incompresa. Mi davo sempre le colpe. Ma quella mancanza totale di empatia ha fatto definitivamente scricchiolare i miei sentimenti».
Era incompresa anche all’esterno. Come quando andò a fare la prima denuncia ai carabinieri.
«Uno di loro mi chiese se fossi proprio sicura di voler denunciare il padre di mio figlio. Ero con mio padre, cresciuto con la divisa da carabiniere: quella frase ci ha gelati. Mi fece sentire che non fosse reale quello che stavo vivendo, come se me lo stessi inventando».
Anche un’associazione che sosteneva donne alle prese con la violenza domestica le diede un «consiglio» terrificante.
«Mi consigliarono di tornare a casa, da mio marito, perché coglierlo in flagranza di reato avrebbe dato maggior valore alla mia causa».
E poi c’era la macchina del fango orchestrata da lui.
«In piccole città come Vittoria (in provincia di Ragusa, dove è nata e cresciuta) è facile spargere le voci. Si diceva che fossi impazzita, che facevo parte di una setta, che ero una donna leggera, frivola. Ero “sporca” e avrei sporcato chi mi stava vicino».
Lui in primo grado è stato condannato a sei mesi di carcere.
«Ha fatto appello, di giorni in prigione non ne ha scontato nemmeno uno. Alla fine, quest’anno, la corte d’appello ha dichiarato il “non doversi procedere nei confronti dell’imputato per essere il reato ascrittogli estinto per prescrizione”, condannandolo al pagamento delle spese legali per quel grado di giudizio».
Oggi vostro figlio ha 19 anni. Sta con lei?
«Sì, lui sta con me ma l’ho lasciato sempre libero di scegliere: il mio ex non è stato un buon marito, ma penso possa essere un buon padre. Per questo non ho mai costretto nostro figlio a non vedere il padre. Nostro figlio sa: non è né dalla mia parte né dalla sua parte ma dalla parte della verità. Perché ha visto».
Lei non sente il suo ex da 10 anni.
«Vivo a Milano da qualche anno, l’aver messo tanta distanza mi fa stare più serena. Ma non sono totalmente tranquilla perché chi vive una violenza del genere non lo può mai essere. C’è una parte di te che sta sempre sul chi va là».
La musica è stata un’àncora di salvezza.
«La musica è stata salvifica, un rifugio protetto. Il pianoforte – quello sì – posso definirlo il mio compagno fedele di vita perché c’è sempre stato, nella buona e nella cattiva sorte. Grazie alla musica sono rinata. Dico sempre alle donne che sono vittime di violenza, che vivono un amore tossico, di aggrapparsi alle loro passioni perché da lì può arrivare la forza di alzarsi».
Anche Papa Francesco l’ha «aiutata», quando le fu proposto di scrivere la colonna sonora per un docufilm tratto da un libro di Bergoglio, «La mia idea di arte».
«È stata una figura chiave nella mia ricostruzione. Leggendo le parole di papa Francesco fui illuminata perché sembrava che parlasse di me e di come mi sentivo in quel momento: affrontava il tema dello scarto, diceva che nessun uomo deve far sentire scarto un altro uomo, perché siamo tutti uguali agli occhi di Dio. In quel momento io mi sentivo così: né donna né madre né artista. Vivevo il mio totale fallimento e invece le sue parole mi hanno dato coraggio perché ho pensato che forse c’era ancora qualcosa di buono in me».
Dal 2022 nei suoi concerti mette sul pianoforte un paio di scarpette rosse, un simbolo contro la violenza sulle donne.
«Sono simbolo di una lotta in cui io sono solo una goccia nell’oceano, ma unita alle altre gocce posso dare anch’io un piccolo contributo».
Oggi qual è il suo sogno professionale?
«Mi piacerebbe tantissimo suonare al teatro antico di Taormina, un luogo storico che guarda un meraviglioso mare. Adoro il mare, con l’acqua ho un rapporto molto simbiotico».
Lui, inutile dirlo, la portava sempre in montagna.