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 2025  maggio 16 Venerdì calendario

La favola di Herzi

Fuori da qui, da questa bolla pazza, c’è il mondo reale, che Hafsia Herzi conosce bene. Ma la sua storia è davvero la favola di Cenerentola.
Il tappeto rosso è tutto suo. Ha una storia dura ma è più forte del suo passato. Di origine maghrebina, ha 38 anni e il suo volto, la sua pelle ambrata sono sempre più intensi. L’abbiamo conosciuta nel 2006, quando vinse a Venezia come miglior attrice emergente per il debutto in Cous Cous di Kechiche, dove la vita di una comunità d’immigrati rumorosa e solidale scorre in presa diretta, conquistando tutti con la danza del ventre e il cibo come simbolo d’identità, una duplice voluttà che le aprì il futuro. «Quel primo riconoscimento al Lido? Ero frastornata, incredula. Non mi sembrava vero. Quando andai al provino sapevo a stento cosa fosse un film. Mi davano un questionario, una domanda era se mi piace ballare? Sì, la danza del ventre, scrivevo, non era vero, all’inizio ero un disastro, poi è diventata una passione».
Hafsia non recita i ruoli, li ha tatuati sulla pelle, li vive: «In pratica dovevo interpretare me stessa, quando mi riunisco con i miei fratelli facciamo un bel chiasso».
Sua madre non sapeva né leggere né scrivere: «Quando vide sulla metropolitana la mia foto col premio su un giornale, andò nel panico, pensava che fossi morta. In realtà stavo nascendo al cinema». Hafsia ha appena vinto da attrice il César (gli Oscar francesi) per Borgo, dove incarna una guardia carceraria.
Ma è anche regista, i suoi primi due film furono già a Cannes: «Il ricordo più bello della mia prima volta, malgrado il mio inglese all’epoca ridicolo, fu quando vidi Stallone che accompagnava Rambo». Un altro attore che ha nel cuore, con cui recitò nel suo ultimo film, Un uomo e il suo cane, basato su Umberto D di Vittorio De Sica, è Belmondo.
Ora, in gara, è al debutto. Porta La Petite Dernière. È la storia di una ragazza di 17 anni che vive in una banlieue parigina, in una famiglia felice. Si iscrive a Filosofia e scopre un mondo completamente nuovo. Musulmana praticante, è attratta dalla femminilità e non vuole scegliere tra l’amore per Dio e l’amore per le donne: «Si emancipa dalle tradizioni». Da una parte la fede, dall’altra il desiderio; in mezzo, la fragilità esistenziale. Hafsia è partita da una domanda: «È possibile riconciliare aspetti diversi della propria identità? Ho esplorato il mondo queer, non è la mia storia né quella della mia sessualità, ma leggendo il libro ho pensato che donne così al cinema non vengono raccontate».
Il film è l’adattamento del romanzo in parte autobiografico di Fatima Daas, pseudonimo di una scrittrice francese che ha dichiarato: «Ho deciso di non rinunciare a nessuna delle mie identità».
La regista, che ha girato in un quartiere malfamato e violento, dice che all’inizio non si sentiva pronta e ci ha messo un po’ a trovare la sua giovane protagonista, Nadia Melliti, «ha un’energia pazzesca. Amo la competizione, l’idea di stare fra tanti grandi registi, e sono fiera di rappresentare la Francia. Perché la mia è una storia atipica». È cresciuta a Marsiglia, «quella città è un teatro permanente, basta ascoltare le conversazioni sull’autobus. Immagino come vanno a finire quelle storie e mi dico, potrebbe essere la scena di un film».
Suo padre veniva dalla Tunisia (è morto che era piccola), e sua madre dall’Algeria, a Parigi faceva la domestica, «l’ho fatto anch’io saltuariamente». Sei fratelli senza un padre. «Mamma ha fatto il possibile per non farci mai mancare nulla. A 13 anni lavoravo come baby sitter o da McDonald’s». Si arrangiava con tanti lavoretti. «Quando sono andata a vivere per conto mio non è stato facile trovare una casa in affitto, anche per problemi di razzismo. Ma la diffidenza è reciproca. Il vero problema non erano tanto i soldi, ho patito il freddo e la solitudine». Trovava sempre qualcosa da fare, scriveva, e ha sempre adorato guardare dalla finestra, alle prime luci del mattino, «quando sembra che la vita sia immobile, e vedo i miei pensieri».
Hafsia parla con grazia e fermezza; è diventata mamma e dice che «ci sono momenti in cui la bellezza e la brutalità si incontrano, la tenerezza, le crisi del bebè». Non si piange addosso ma ha dipinti sul volto il riscatto sociale e le ingiustizie. Ha cambiato il proprio destino. Gli inizi sono quelli che uno può immaginare: «Rispondevo a tutti gli annunci economici, volevo diventare infermiera ma fui bocciata due volte al concorso. Ho sempre sognato il cinema, avevo Sophia Loren come modello». Ai provini le dicevano che era troppo tipizzata, «non erano mai chiari, dicevano “vedrai che in futuro accadrà”. Le difficoltà dipendevano anche dal fatto che volevo essere autrice di me stessa. Oggi l’ambiente è molto più aperto». Come regista non le interessano i cliché della donna araba vittima della violenza domestica, o costretta a sposare chi non vuole. «Mi piace raccontare mestieri difficili che il cinema attraversa poco. Voglio far passare i messaggi dei miei film in totale libertà. E comunque... Il cous cous non mi piace, preferisco la vostra pasta».