il Fatto Quotidiano, 16 maggio 2025
i Trovatori fra fake e body shaming
La formula giornalistica “macchina del fango” descrive l’insieme degli attacchi ad personam che fanno ormai parte della quotidiana prassi comunicativa giornalistica e politica, e che vengono rapidamente moltiplicati grazie all’ausilio dei moderni mezzi di comunicazione, ai quali molti affidano con sempre maggiore leggerezza, deprecabile sempre e vieppiù se viene da persone di potere, il proprio immeditato pensiero.
(…) Il Medioevo sottolinea e teorizza il principio secondo il quale ciascuno doveva cercare di mantenere intatta la propria reputazione, perché fama e infamia (mala fama) sono problemi centrali di quella società, certo assai diversa dalla nostra, e sono infatti oggetto di vari trattati, come per esempio quello scritto intorno alla metà del XIII secolo da Tommaso di Piperata, dal quale presero spunto molti giuristi successivi. E più o meno negli stessi anni, Brunetto Latini, noto anche ai lettori della Commedia per averlo incontrato all’inferno, nel trattatello in versi intitolato Tesoretto scrive che “assai è più piagente / morire orratamente [cioè con onore] / ch’esser vituperato” (vv. 2163-2165).
La buona fama, si potrebbe dire, non è per sempre, giacché anche chi pensa di non avere un comportamento reprensibile può essere colpito dalle maldicenze dei calunniatori, che nella letteratura italiana del XIII secolo trovano un ottimo esponente nel Mala-Bocca del Fiore, un lungo poema di più di duecento sonetti con il quale l’autore (forse Dante Alighieri) traduce la più importante opera allegorica del Medioevo romanzo, il Roman de la rose di Jean de Meun: “e ciò è Mala-Bocca maldicente, / che truova ogne dì nuovi misfatti, / né non riguarda amico né parente” (sonetto 139, v. 9): pur di soddisfare il proprio piacere di sparlare degli altri, insomma, il calunniatore non guarda in faccia nessuno, né amici, né parenti. Non sarà del resto un caso se tra i personaggi più significativi, in negativo, della lirica amorosa trobadorica figurano i lauzengiers, letteralmente “lusingatori”, che hanno la missione di seminare zizzania con lo scopo non recondito di portare alla separazione gli amanti felici. E a poco serve, in questo panorama, la consolazione con la quale Bruzio Visconti, nella prima metà del XIV secolo, cerca di mitigare gli sconquassi personali che la calunnia può causare: “el bon de esser biasmato dal vil ama, / perché gli è loda il biasmo di tal gente” (ballata Senza la guerra di Fortuna ria, vv. 47-48).
La poesia medievale, tanto in lingua latina quanto in lingua volgare, dà dunque spazio al vituperium, che può essere assai virulento, e non esente da vere e proprie calunnie. Nello spazio che separa l’attacco personale vero e proprio dal gioco burlesco inscenato a scopo esclusivamente ludico in favore della compagnia di amici, la casistica è ampia. Per fare solo qualche esempio, c’è la stroncatura personale, motivata dall’invidia, o dai pettegolezzi, c’è il biasimo polemico verso alcune categorie (i giullari, i ricchi, il clero, le donne), c’è l’attacco politico, spesso eterodiretto dal gruppo di potere – come si direbbe oggi – che governa la corte presso la quale il poeta trova accoglienza. E non manca, anzi fa spesso parte integrante dell’attacco personale, vero o giocoso, una pratica oggi giudicata moralmente e socialmente riprovevole: il body shaming non rappresentava un problema per la forma mentis medievale, giacché l’idea che alla bruttezza fisica dovesse corrispondere la bassezza morale era ben radicata, visto che il più delle volte un corpo deforme altro non è che l’incarnazione di un’anima malvagia e perversa. Sono numerosi i sirventesi trobadorici che contengono attacchi personali. (…)
Un caso per certi versi esemplare è quello di Guilhem de Bergueda. Di nascita aristocratica (1130 ca.-1196), Guilhem ebbe un’esistenza agitata, culminata in un omicidio che gli costò un periodo d’esilio.
Lo spirito battagliero del suo animo si riversa in numerosi sirventesi nei quali Guilhem si rivela trovatore dalla lingua tagliente, capace di accuse talora pesantissime. Tra le diatribe poetiche che lo videro protagonista c’è quella, corrosiva e oscena, contro il vescovo della contea catalana di Urgell, o (…) quella contro il nobile catalano Peire de Berga (tra il 1170 e il 1175), un trittico di sirventesi il cui tema è tutto sommato convenzionale: il poeta loda la bellezza della moglie di Peire, che viene dileggiato spudoratamente. Guilhem fa sapere a tutti di aver ricevuto un pegno d’amore dalla donna, e, rivolgendosi direttamente all’amata, scrive senza mezzi termini: “vos etz fins aurs, e vostre maritz merga” (voi siete oro fino, e vostro marito merda); il poeta si compiace inoltre di aver messo “los corns el capairon” (le corna sul cappello) di Peire, e lo sfida alla battaglia. Ma il linguaggio si fa a doppia lama, perché i versi “e parr’adoncs cals es lo plus valens / ni cals ferra mieills de sa schirimberga, / que non es jorns per s’amor non la terga” (e allora si vedrà chi è il più valente / chi colpirà meglio con la sua “schirimberga”, / poiché non passa giorno che per il suo amore [della donna] non la netti) sono ambigui (…).
Peire Cardenal, uno dei più feroci fustigatori della corruzione del clero durante il XIII secolo, biasima, tra gli altri, il chierico Esteve di Belmon in tre virulenti sirventesi: lo accusa di omicidio e di spietatezza, dice che è mentitore, che “quando è nel coro usurpa un posto / la sua colpevole anima peccatrice, / traditrice, sottratta a Dio”; Esteve è come una bestia, il poeta ne è disgustato “perché è più grosso di un maiale, / perché paga male i suoi servitori, / perché gareggia con il porco / e si pavoneggia nel bel mezzo della chiesa”. Addirittura, “Esteve non ha parente che lo piangerà / quando sarà impiccato, / anzi non avrà nessuno che lo piangerà; / se gli avvoltoi lo mangiassero / non farebbero pasto peggiore”. Un’aggressione con molti colpi sotto la cintura. (…)
Le leggi che regolavano il vivere comunitario di varie località della Francia meridionale non mancavano di esigere l’onere della prova per chi calunniava: chi “proar non o pot” – formula volgare che corrisponde al “nisi ea probare poterit” dei documenti in latino – veniva obbligato al pagamento di un’ammenda. Eppure, non risulta che gli autori dei sirventesi di attacco personale (…) siano in qualche modo stati sanzionati, anche in assenza di prove. Diversamente andò a un certo Jean Nicolas, che a Pignans, località dell’attuale dipartimento del Var, sulla Costa Azzurra, scrisse nel 1302 una cancio, in verità un breve testo di fattura assai modesta, nella quale attaccò un chierico del luogo, Rogier. Da vero giullare, il nostro poeta “publice in platea et in aliis locis de Piniaco cantavit et publicavit, dum plures persone dicti loci ballarent”: la reputazione del chierico viene insomma oltraggiata davanti al popolo in festa. Rogier si rivolge al giudice, perché ritiene che Jean Nicolas sia un calunniatore. Il giudice constata che “Johannes Nicolaus de Piniaco, ausu suo temerario” ha scritto e divulgato il testo “in vituperationem et injuriam Rogerii clerici de Piniacensis ecclesie et infamiam ejusdem”, e la sentenza è conseguente: “dictum Johannem Nicholaum condempno in decem libras”. Difficile stabilire quanto pesante fosse la pena pecuniaria inflitta, ma certo leggerissima non doveva essere. (…) Jean Nicolas accusa Rogier di avere impoverito la città, costringendola a mendicare, al punto che non potrebbe ripagare i danni fatti nemmeno se avesse gli introiti di quattro parrocchie (…). Il “poeta” chiede al chierico di fare pubblica ammenda, diversamente “en enfern anas tot clar” (andrete sicuramente all’inferno). Non è dato conoscere i dettagli della questione, e dunque non possiamo dire se l’invettiva di Jean rispecchi un comportamento realmente censurabile da parte del chierico, o sia solo lo sfogo di un rancore personale dovuto a chissà quale sgarbo. Ma il giudice non prende nemmeno in considerazione il contenuto della breve poesia, punta l’indice sulla vituperationem e sull’injuriam a danno di Rogier: il fatto è che Jean non ha le prove di quanto afferma, e per questo viene condannato.