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 2025  maggio 16 Venerdì calendario

Il grande potere dello sport

Quante volte, specie in passato, da una tribuna di uno stadio di pallone abbiamo sentito alzarsi il civilissimo appello: «Fuori la politica dal calcio». Uno slogan effimero, quanto retorico, perché come spiega in incipit a Lo sport al potere. La cultura del movimento e il senso della politica (add editore. Pagine 262. Euro 18,00), l’ultimo saggio di Mauro Berruto, «lo sport è politica. Lo è sempre stato e lo sarà in futuro». L’ex ct dell’Italvolley maschile (bronzo ai Giochi di Londra 2012) e ora deputato eletto nelle liste del Pd, conosce a fondo la materia e storicamente non può che fissare la nascita del binomio “sport & politica” con i primi Giochi olimpici dell’antichità. Quindi è dal 776 a.C. che kantianamente parlando ogni gesto sportivo è da considerarsi anche un gesto politico. E l’unico tentativo di break per sciogliere questo percorso parallelo venne fatto a Milano nel 393 d.C. quando il politico e poi vescovo Ambrogio chiese la sospensione dei Giochi olimpici in quanto «inaccettabile retaggio pagano». Richiesta accolta dall’imperatore Teodosio I che da convertito al cristianesimo inserì il veto allo “sport pagano” nell’editto di Costantinopoli. Un enorme abbaglio storico, del resto anche i migliori cristiani così come gli statisti più illuminati possono sbagliare. La vocazione olimpica infatti è la più pacifica (ha fermato le guerre), inclusiva e più democratica che esista da sempre. Corebo, ricorda Berruto, era un umile fornaio dell’Elide, che potè salire sul gradino più alto del podio, e quindi anche socialmente, grazie al successo ottenuto nella prima prova olimpica dello stadion, la corsa di 192, 97 metri. Per questo, il popolano Corebo venne eternato con la dedica di un edificio di culto alla memoria del campione originario. Anche lo sport italiano ha avuto il suo fornaretto di Carpi, Dorando Pietri, l’eroe dei Giochi di Londra 1908 che sfinito tagliò il traguardo facendo piangere la regina d’Inghilterra. Ma siamo già dentro alla storia moderna, mentre l’opera enciclopedica, nel senso migliore, di Berruto, offre il miglior contributo non solo storiografico ma anche letterario nei capitoli dedicati alla storia dei classici greci con rimandi sportivi persino all’Odissea e all’epica gara di tiro con l’arco in cui Penelope deve scegliere, da rapita, il suo pretendente in qualità di vincitore della disfida. Perciò tornando alla classicità va saputo che l’ultimo campione dei Giochi antichi, nel 369 d.C. fu il pugile armeno Varadzat il quale partito da principe del ring divensalì al trono di re d’Armenia. Tra l’ascesa al potere di Varadzat e quella del pugile sindaco di Kiev, Vitalij Klicko, passano sedici secoli in cui il pugilato, in quanto emblema di virilità, ha sempre avuto un posto di rilievo nelle menti perdute dei dittatori. E questo da Mussolini che elesse a modello dell’italiano fascista il campione del mondo dei pesi massimi Primo Carnera da Sequals, fino a Fidel Castro che a Cuba nella grande accademia sportiva comunista, l’Eide, fucina di talenti cresciuti in batteria, poteva vantare il leggendario boxer Teófilo Stevenson. La gloria cubana rimase sempre un amateur, un dilettante e così riuscì nell’impresa di riportare a L’Avana tre ori olimpici conquistati ai Giochi di Monaco 1972, Montreal ‘76 e Mosca ‘80. Quando Stevenson venne invitato a passare al professionismo per sfidare il re dei massimi Cassius Clay – massimo emblema del rapporto sport-politica e pacifismo, poi convertito all’islamismo come Muhammad Ali –, il pugile cubano secco come un jab dei suoi rispose: «Cosa valgono cinque milioni di dollari, se ho l’amore di otto milioni di cubani». E il suo compagno di lotte e di Giochi, il velocista e mezzofondista Alberto Juantorena fino alla fine dei suoi giorni ha continuato a ripetere: «Solo la gente senza ideali corre dietro al denaro. Pensano di andare negli Stati Uniti e diventare ricchi, ma dentro sono vuoti, hanno venduto l’anima. Noi preferiamo rimanere a Cuba per aiutare il nostro Paese». Un simile discorso politico poteva proferirlo solo la grande anima della rivoluzione cubana, Ernesto “Che” Guevara, invece lo pronunciò Juantorena, l’atleta che a Montreal aveva iniziato la rivoluzione olimpica del suo Paese stabilendo quello che allora era un record, la “doppietta olimpica”: oro nei 400 e negli 800 metri. Lo sport indottrinato e guidato dalla politica, in questo caso dal regime di Fidel, raggiunse l’apice alle Olimpiadi di Barcellona 1992: con 14 medaglie d’oro, 6 d’argento e 11 di bronzo, Cuba divenne la quinta potenza olimpica mondiale. Lo sport cubano divenne l’arma per niente segreta di Castro e una ulteriore minaccia degli alleati russi rispetto ai vicini americani. Quegli Usa che nonostante le imprese dell’afroamericano Jessie Owens, il primo “figlio del vento” che il tempo di una finale dei 100 ai Giochi di Berlino del ‘36 spettinò persino i pensieri totalitari di Hitler, ci ha messo quasi tutto il ‘900 per normalizzare la questione razziale all’interno dei suoi 50 stati. Sport e dittature corrono da sempre sulla stessa corsia, dal tiranno Pisistrato fino a Vladimir Putin, zar anche dei Giochi Invernali di Sochi 2014. Riaprendo un oblò sul secolo scorso si sentono ancora i rumori di fondo delle rivolte studentesche che chiedevano il sacrosanto rispetto dei diritti umani. Una foto di quella generazione che spicca fra tutte è quella scattata sul podio dei Giochi di Città del Messico ‘68: il pugno chiuso, guantato, dei “Black Power” Tommie Smith e John Carlos. Ma se tutto questo, che fa parte di una staffetta infinita e complessa, come il rapporto sport e politica, è ormai materia di studio (comprende altre decine e centinaia di storie esemplari a cinque cerchi) di cui Berruto fornisce una dovizia di dettagli e aneddoti da trasferire con una schiacciata di memoria sui banchi dei licei e delle università, quello che ancora sfugge ai più, adulti in primis, è l’immenso valore costituzionale dello sport. Un valore di cui l’onorevole Berruto può fregiarsi per averlo fatto inserire nell’articolo 33 della nostra Costituzione. «La Repubblica riconosce il valore educativo sociale e di promozione del benessere psicofisico dell’attività sportiva in tutte le sue forme». Questa è la storica “modifica costituzionale” con la quale l’Italia si è finalmente dotata del “diritto allo sport” all’interno di un testo meraviglioso del 1947 che per spiegarlo al popolo dobbiamo ricorrere alle prime serate di Rai1 di Roberto Benigni.
Il Sogno di Benigni si ritrova nelle pagine cariche di passione civile, quindi sportiva e politica, di Berruto,che ci ricorda una volta di più che il cambiamento parte dalle vittorie ma non finisce mai con queste. Altrimenti non si spiegano le 40 medaglie conquistate dalla squadra Italia alle ultime Olimpiadi di Parigi 2024 che ne fanno il 9° Paese più forte del mondo ma anche quello ai primi posti della classifica per niente edificante (stilata dall’Ocse) per inattività, sedentarietà e obesità infantile e adolescenziale. Ecco sport e politica da noi, ma anche in molti altri Paesi, andando di pari passo possono migliorare ancora i medaglieri olimpici e paralimpici ma allo stesso tempo devono puntare a scendere agli ultimi posti e diventare la maglia nera di quelle graduatorie dell’Ocse.