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 2025  maggio 15 Giovedì calendario

Intervista a Diego Abatantuono

«Non sono un amante dei compleanni».
Il 20 maggio ne compie 70. Eviterebbe?
«Beh, insomma, diciamo la verità: invecchiare fa un po’ schifo. Non è bellissimo. È una malattia con la quale si convive, la si prende con filosofia. Per fortuna ci sono i figli e i nipoti». Sornione: «Se prima ti sentivi invincibile, adesso ti senti nelle mani del destino e quindi questa cosa qua – diciamo – è meno interessante». Diego Abatantuono è un pezzo delle nostre vite, ci è entrato con il cinema e ci accompagna da sempre: con i capelli da pazzo e i baffoni, la bandiera del Milan, che urlava «viuulenza»; con il pizzetto, i capelli all’indietro, i colori della Grecia, mentre in Mediterraneo filosofeggiava: «Hai mangiato il pollo con le mani che ti rimane il cilum attaccato alle dita?».
Festeggerà?
«Con tanti amici, ma è un’arma doppio taglio perché vuol dire che se sono tanti, tu passi una serata a dire: oi ciao, come va? Grazie che sei venuto, ti trovo bene, tuo figlio? E fai così per 60/70 volte. Alla fine del settantesimo c’è il primo che se ne va e quindi ricominci: oi ciao, grazie che sei venuto. Quindi praticamente la serata si risolve in 130-140 saluti».
La vocazione?
«Non sono nato con l’idea di fare l’attore, non sono stato uno di quelli che da bambino ballava e cantava sul tavolino sapendo che sarebbe salito su un palco. È stata una sequela di casualità che mi hanno portato nei posti giusti al momento giusto a fare le scelte giuste».
Gli inizi: tecnico delle luci per I Gatti di Miracoli.
«Con loro è stata un’amicizia bellissima, oltre che una palestra pazzesca: come fare un’università della comicità».
La svolta?
«Mio zio – che era il proprietario del Derby – a 21 anni mi propose di fare il direttore artistico, un atto di grande stima. Chiamai Porcaro, Faletti, Mauro Di Francesco, Francesco Salvi, Ernst Thole, tutti i miei amici. C’era anche Boldi. Era esilarante, era una roba pazzesca, faceva ridere in una maniera che non potete capire. Lui faceva quello che subiva, io ero il suo carnefice».
Il personaggio del «terrunciello» come nacque?
«Milano era fatta di terruncielli, era piena di pugliesi, oggi quel personaggio parlerebbe un misto griglia magrebino-italiano.
All’epoca invece tutto il Giambellino parlava così. Lo proponevo nelle mie serate e ha avuto talmente successo che quando mi hanno proposto di fare il cinema mi hanno chiesto di andarci con quel personaggio».
Un periodo d’oro. Una ventina di film in tre anni.
«Fu una gestione scriteriata, ero giovane, fui mal consigliato e così bruciai il personaggio».
Prima fece tanti soldi. Poi glieli fregarono.
«Ero sul set che giravo Attila con lo spadone nel camper e firmai un assegno da 17 milioni. Giravo film e tiravo fuori soldi: in quel periodo credevo di pagare tasse che invece non venivano pagate. A furia di far così andai sotto con i debiti, quelli furono anni abbastanza difficili».

Ma poi arrivò la telefonata di Pupi Avati.
«A Pupi voglio molto bene e gli devo molto. Prima di chiamare me, aveva cercato Lino Banfi: se lui avesse accettato la storia avrebbe preso un’altra piega».
Dieci film con Salvatores. «Marrakech Express» ha segnato una generazione.
«Il produttore Gianni Minervini mi propose di fare la guest star, dovevo essere l’amico che viene trovato in Marocco. Ma a me il copione conquistò subito. Quindi gli dissi. Ponchia lo faccio io. E ho pure il regista: Salvatores. E lui: perché uno spagnolo?».
«Mediterraneo». L’Oscar.
«Totalmente inaspettato, per noi era scontato che non avremmo mai vinto. Stavamo girando Puerto Escondido in Messico e fermammo le riprese per andare alla premiazione. Eravamo asciutti dal deserto, magri, abbronzati: eravamo bellissimi».
La serata a Hollywood.
«Dovevo affittare uno smoking, perché ovviamente nel deserto non ce l’avevo. La prima libidine è stata che mi andava bene subito e mi stavo da Dio. Poi ho scoperto che era lo smoking usato da Sean Connery in 007. Libidine massima, ero al settimo cielo. Lì erano tutti pallidi, noi sembravamo le vere star di Hollywood».
Il film migliore?
«La mia famiglia. Posso aver sbagliato un agente, pazienza. Ma se sbagli una moglie, sei finito».
Lei è separato, forse una moglie l’ha sbagliata...
«No, non l’avevo sbagliata perché anche se ci siamo separati, lei (Rita Rabassini) è una persona unica al mondo. Sapevo che era una persona di qualità, intelligente. E mi ha aiutato tantissimo ad avere una figlia straordinaria, dei nipotini straordinari: non mi ha mai creato un problema. Io vedo un sacco di miei amici che hanno avuto divorzi faticosi, incomprensioni, lotte intestine».

La sua ex si è messa con Gabriele Salvatores, mentre lei ha avuto altri due figli con Giulia Begnotti.
«Siamo tutti amici, tra effettivi e acquisiti siamo sei nonni: un bel parterre, di qualità. Noi all’epoca ci siamo anche trasferiti a Lucca per far stare assieme tutti i ragazzi. La convivenza vicina tra la ex moglie e la moglie attuale poteva essere una bomba a orologeria, invece sono state tutte e due estremamente intelligenti».

Tanti successi ma pochi premi.
«Per Regalo di Natale si diceva che avrei vinto io, poi tutti insieme ex aequo e invece premiarono Carlo Delle Piane. In Per amore, solo per amore ad Alessandro Haber viene subito tagliata la lingua quindi è muto per tutto il film. Io ho parlato tutto il tempo, lui era muto, ma il David di Donatello lo ha vinto lui. È successo anche con Il toro: il toro ha fatto il toro, io ho recitato tutto il film e Roberto Citran ha vinto la Coppa Volpi».

Si è sentito snobbato?
Ride. La battuta è fulminante. «Ero sulla cresta dell’onda, forse se fossi stato in giuria anche io avrei dato quei premi per aiutare gli altri».