Corriere della Sera, 15 maggio 2025
Pierfrancesco Favino: «Ho fatto il buttafuori e il pony express fino a 28 anni, perché dicevano che non avevo la faccia da protagonista»
«L’amore non sempre genera il bene, si può anche amare male», dice Pierfrancesco Favino. Interpreta il padre di Enzo, e il film (apre la Quinzaine) ha il nome del figlio 16 enne (l’attore Eloy Pohu), apprendista muratore vicino a Marsiglia, famiglia abbiente, villa con piscina, il padre professore universitario. Ma il figlio sceglie cemento e vanga per il suo futuro. Il regista Robin Campillo ha portato a compimento il progetto, che era nato con il suo scomparso amico e collega Laurent Cantet.
Che padre è nel film?
«Essendo in difficoltà, è dolce, spaventato, violento anche fisicamente, ammetto che capita anche a me con le mie figlie, quando non sai risolvere una situazione alzi la voce, oppure sei iperprotettivo. È l’amore di un padre che cela il desiderio di controllare il figlio. Ma sono tanti i temi del film, anche sociali».
Cioè?
«Beh, l’idea di progressismo, della borghesia, di cosa significhi appartenere a un ambiente intellettualmente vivo e invece ignoriamo le richieste di qualcuno che vuol diventare sé stesso e ha bisogno di rompere i legami con le proprie radici, e forse sta trovando un proprio talento».
Che è fare il muratore.
«La concretezza del fare è interessante rispetto alla modernità, ed è resa in modo lucido e semplice. Oggi si viene pressati a compiere troppo presto scelte definitive sul futuro».
Il figlio ha un’infatuazione per un altro muratore, ma senza sesso.
«Ciò che accade ora è l’apertura della sfera nell’idea di comprensione di sé, anche nella sessualità. Una libertà che prima non c’era. Se non è vissuta con moralismo è una strada importante. Io vengo da una generazione che ha vissuto queste cose con paura, come un’onta».
Si è posto domande come padre?
«Sì: che padre penso di essere. Tutti noi pensiamo di essere qualcosa. Poi i fatti dicono quello che siamo. Oggi non possiamo fare a meno dell’ascolto. Ma ascoltare il frutto del proprio sangue è complicato».
E di suo padre che ricordo ha?
«Orfano a 8 anni, cresciuto in un seminario, se non si fosse messo la corazza non avrebbe resistito. Era iper affettuoso, ho avuto la fortuna di vivere con lui il mio passaggio come uomo, anche se è bizzarro che sia avvenuto quando si ammalò. Mio padre ebbe il coraggio di diventare antagonista per spronarmi. Da genitore aveva paura di un ambiente così aleatorio e complicato come quello degli attori, cercava di proteggermi, ma poi soffiò sul fuoco per accendere il motore. Un percorso simile al film? Sì, infatti non è stato difficile intercettare quel padre».
Che effetto le fa recitare in lingua straniera (è la dodicesima volta) e dire Enzò, alla francese?
«Cannes me la sono dovuta sudare, se sono qui è per altri film italiani passati al festival, come Il Traditore di Bellocchio. Non è una scelta razionale, penso che il nostro cinema appartenga al mondo. Ma si crea un disequilibrio rispetto a quello che si è imparato perché un vocabolario porta con sé attitudini comportamentali. Il mio viaggio da attore è stato faticoso».
Ricorda gli inizi?
«Beh, fino a 28 anni ho fatto altri mestieri per pagarmi l’affitto, cameriere, buttafuori, pony express. Ai provini dicevano che non avevo la faccia da protagonista. Alla mia prima esperienza, un film in tv, ero stato preso come protagonista e mi ritrovai a un ruolo di contorno perché fisicamente non andavo bene. Il bello è che il regista, Alberto Negrin, è lo stesso che poi mi fece fare Bartali. A distanza di tempo è andata bene così, mi sarei bruciato. Mi considero un senza patria tuttora, non mi sono mai sentito da qualche parte, anche i miei genitori erano immigrati dalla Puglia. L’idea del viaggio è importante».
E se ripensa all’adolescenza?
«Io non ci tornerei. È faticoso stare dentro quel turbamento in cui sei tutto e niente, una cosa e il suo opposto, desideri essere accettato e non appartenere a nulla. Una tensione insopportabile che ricordo bene. E ho due figlie adolescenti. La mia ribellione è stata fare questo mestiere. Ho scelto questo mestiere per necessità di evasione».
Lei è tra i firmatari dell’appello al governo in difesa del cinema.
«La cosa più lucida a favore delle piccole produzioni l’ha detta Pupi Avati, che non mi sembra un trotzkista. È necessario costruire ponti, sono anni che chiediamo incontri, anche prima di questo governo. La narrazione della resa dei conti non è utile, voi sapete se io sono comunista? E qual è l’idea di un elettricista del cinema? Io sono a disposizione del dialogo, per migliorare la situazione, che il tax credit andasse rivisto eravamo tutti d’accordo. Le cose non si risolvono dicendo tu sei della Lazio e con te non parlo».