la Repubblica, 15 maggio 2025
Carrère: “Così Roth mi ha insegnato a superare i limiti”
Nel 1969 Portnoy’s Complaint sconvolgeva l’America con la sua valanga di desideri repressi, nevrosi familiari, masturbazione compulsiva e humour ebraico portato all’estremo. A oltre cinquant’anni dalla pubblicazione, il monologo più esplosivo della letteratura americana torna in libreria in una nuova traduzione italiana di Matteo Codignola, semplicemente intitolato Portnoy, con cui Adelphi inaugura la riedizione integrale dell’opera di Philip Roth.
Emmanuel Carrère, che di Roth è stato lettore vorace e complice intellettuale, sarà al Salone del libro di Torino per parlare di un libro «tenero e crudele», dell’ironia tragica dello scrittore statunitense, dei suoi doppi letterari, del tormentato rapporto con le donne e la psicoanalisi.
Quando ha scoperto Portnoy?
«Avevo 25 anni, e da allora ho letto quasi tutti i libri di Roth. Forse non proprio tutti, ma davvero molti. È uno scrittore che mi accompagna da sempre. Quando Codignola mi ha annunciato che Adelphi aveva acquisito l’intero catalogo Roth, sono letteralmente saltato di gioia.
Abbiamo scoperto di condividere una passione comune. Non sono uno specialista di Roth, ma un lettore fedele, appassionato. RileggerePortnoy mi ha lasciato stupefatto. È un libro folle, una deflagrazione ancora intatta. Il potere scandaloso, oltraggioso del testo è sempre lì. Non è invecchiato».
Roth aveva un rapporto ambivalente con questo libro.
«Sì, diceva di non considerarlo pienamente riuscito sul piano letterario. Ma per me è un libro molto compiuto. Certo, non è un romanzo nel senso classico, con una trama e una struttura narrativa tradizionale. È un monologo, o meglio una sorta di stand-up letterario. Roth si siede e racconta la propria vita in forma intima, scandalosa. È di una violenza estrema, soprattutto nei confronti dei genitori. Eppure c’è anche molto amore. Questo miscuglio di tenerezza e crudeltà è tipico di Roth».
Pensa che vada troppo oltre?
«Non direi, anche se non sono sicuro che sarei capace di spingermi tanto lontano. Il testo è attraversato da un’energia rabbiosa, sessuale, conflittuale.
Roth è letteralmente lacerato tra un “Es” potentissimo – desiderio, istinto – e un Super-io altrettanto opprimente. Tutta la sua opera nasce da questa guerra interiore.
Un corpo a corpo tra pulsione e inibizione».
Alcune performance sessuali di Portnoy sono esilaranti e, alla fine, molto poco erotiche.
«Ciò che racconta ha un grado d’intimità raro, se si può parlare di intimità quando dice di masturbarsi in un fegato di vitello. Roth è un autore raramente erotico. Forse un po’ ne Il Professore di desiderio, ma in generale no. È un autore dell’esibizione e della frustrazione. Non ha alcuna sensualità. I suoi libri sono cerebrali. Non descrive odori, atmosfere. Tutto accade tra la sua testa e il suo sesso. Non lo considero un limite».
Cosa lo rende unico?
«La sua voce, indimenticabile e subito riconoscibile. A volte viene voglia di prenderlo a schiaffi, altre ci si lascia trascinare. Anche quando il tono è comico, in Roth non c’è mai nulla di trascurato. Non ha mai scritto un a frase banale. Ammiro il suo rigore letterario. Roth è Flaubert. Disprezza l’umorismo facile. La sua comicità è una conseguenza, non un fine».
Roth rifiutava l’etichetta di “autofiction”, eppure oggi viene considerato un precursore del genere.
«Non voleva che si parlasse di autofiction e in ogni caso il termine non era ancora di moda quando uscì Portnoy. Quello che ha inventato è piuttosto un’eterofiction con una serie di doppi letterari che lo rappresentano solo in parte. Il più noto è Nathan Zuckerman, ma ci sono anche Kepesh ne Il professore di desiderio, Tarnopol ne La mia vita di uomo. A volte appare lui stesso come personaggio, per esempio in Operazione Shylock, un libro completamente folle in cui un altro uomo finge di essere Philip Roth in Israele. O ancora I fatti, che si chiude con una lettera di Zuckerman a Roth. Ha costruito un’opera di specchi deformanti di una ricchezza straordinaria».
Diceva che Portnoy non è invecchiato. Ma oggi, tra social, pornografia, autobiografia estrema, si ha l’impressione che il mondo abbia già visto tutto.
«È vero che l’esibizione nonscandalizza più ma la carica interiore del libro resta. Non è solo provocazione. È un poema della masturbazione, con una tensione psichica costante. Portnoy non scandalizza più nel senso classico, ma ha una forza trasgressiva che si sente ancora».
C’è un aspetto dell’opera di Roth che oggi può disturbare rispetto al passato: il suo sguardo sulle donne.
«Sì, diciamolo con franchezza: Roth può essere molto misogino. Il personaggio femminile principale, che chiama “la scimmia”, è una caricatura violenta. In La mia vita di uomo, la misoginia è ancora più brutale. La donna è descritta come un mostro castratore, mentre in realtà appare come una persona depressa. Non è difendibile. disturba anche me».
Questa misoginia è il prodotto del suo narcisismo?
«Fa parte del suo egocentrismo. Ciò che mi infastidisce di più in certi suoi libri non è solo la misoginia, ma un rapporto limitato con il mondo, ridotto a se stesso e a poche figure satelliti, come i genitori, la comunità ebraica, gli amori falliti. Nei suoi romanzi più tardivi come La macchia umana, Il complotto contro l’America, Ho sposato un comunista troviamo personaggi più aperti, costruzioni più classiche, meno egocentriche. In ogni caso, riesce comunque a essere uno scrittore universale».
La figura materna è centrale. In “Un romanzo russo” anche lei ha scritto di sua madre.
«Portnoy è l’apoteosi della madre ebrea: buffa, opprimente, toccante. La coppia dei genitori è affettuosa, e lui lo sa. E poi passa il tempo a negoziare con la violenza che ha loro inflitto. Con Un romanzo russo ho provato qualche rimpianto per l’effetto che il libro ha avuto su mia madre. Ma non ho mai avuto la sensazione di aver tradito o infangato. Roth ha scritto poi un libro meraviglioso sulla morte del padre, Patrimonio».
Portnoy è uno stand-up letterario ma anche una seduta analitica.
«Il libro obbedisce ai due principi fondamentali della psicoanalisi: l’associazione libera e l’assenza di censura. Raramente un libro è stato così libero da ogni forma di autocensura. Funziona esattamente come una seduta analitica».
“La mia battaglia con la scrittura è finita” aveva spiegato Roth quando ha smesso di scrivere. Anche per lei è una battaglia?
«Intuisco cosa voleva dire. Per lui era una guerra permanente. Capisco che si possa decidere di abbassare le armi a un certo punto. E vivere questa scelta come una vittoria anziché come una sconfitta».
Se dovesse consigliare a un giovane lettore da quale libro iniziare a scoprire Roth, oltre a “Portnoy”, quale sceglierebbe?
«Direi Lo scrittore fantasma, il primo volume del ciclo di Zuckerman. È un romanzo breve, denso, profondo. Poi La macchia umana, uno dei suoi grandi romanzi tardivi. Il professore di desiderio, che amo molto. E La controvita, dove Roth gioca con versioni parallele dei suoi personaggi, senza essere mai formalista. Direi che già così è un bel percorso di lettura».