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 2025  maggio 14 Mercoledì calendario

Intervista a Chiara Francini

Chiara Francini, da che famiglia proviene?
«Da una famiglia perbene. Mamma era segretaria, babbo lavorava alle poste e come secondo lavoro faceva l’istruttore di scuola guida; oggi sono entrambi in pensione. Sono cresciuta a Campi Bisenzio, figlia unica».
Le origini della sua famiglia?
«Papà era di Gattaia, in Toscana. Poi, quando era ancora bambino, tutta la famiglia si è trasferita a Roma, per via del lavoro del nonno Quirino, muratore. I miei genitori si sono conosciuti quando il babbo fece visita a una sua cugina ricoverata in ospedale, in Toscana. Nel letto accanto c’era la mamma. Era timidissima. Si sono piaciuti in silenzio, poi hanno cominciato a scriversi lunghe lettere. Chissà, oggi due nella stessa situazione si sarebbero aggiunti su Facebook o seguiti su Instagram. E chissà come sarebbe andata a finire».
Famiglia comunista, come quasi tutte in Toscana nel Novecento?
«Famiglia di sinistra».
I comunisti erano di sinistra.
«All’epoca dire “comunista” o di “sinistra” era lo stesso. Cambiava solo chi prendeva il microfono e chi preparava la pastasciutta alla Festa dell’Unità».
Istruzione?
«Ho frequentato il tempo pieno, come tutti i figli di chi lavorava parecchio per arrivare a fine mese in modo dignitoso. Sono cresciuta con i miei nonni materni. Il nonno Danilo e la nonna Orlanda, detta l’Orlanda Furiosa. L’assillo del mutuo era il convitato di pietra di pranzi e cene».
Le è rimasto, quell’assillo?
«Sì. Ma più che un assillo è un’assennatezza amica. Ringrazio i miei per averlo portato a tavola con noi. Oggi, per me, andare al ristorante e ordinare senza guardare il prezzo è il vero lusso. Ho sempre pensato che, per quanto successo si possa aver ottenuto nella vita, tutti noi si rimanga quello che si è mangiato da bambini. E io ho mangiato la schiacciata con la mortadella di Bologna e il pane con l’olio».
Dicevamo della scuola.
«Alle medie capitai nella sezione di tedesco e poi l’unico liceo classico in cui lo si insegnava era il Dante, la scuola dell’alta borghesia fiorentina. Lì c’era la classe dirigente del domani, quella che arrivava a scuola con le famose scarpe di cotone dell’epoca anche a gennaio. E poi c’eravamo noi, i relitti di provincia da Borgo o da Campi; che, avvolti in un bolo di lana, dovevamo prendere due autobus per andare e tornare. È stato un liceo duro come la povertà. Che quando non ti abbatte, ti tempra».
Compagni di scuola?
«Tra quelli diventati famosi c’era Matteo Renzi. Ma non era mio compagno di classe. Era più grande e non lo conoscevo».
Ha rimediato col passare degli anni?
«Accidenti, no. L’ho incrociato solo mezza volta, al Maggio fiorentino. Tra i politici non conosco nessuno».
Il suo monologo sui «sinistri» a cui «interessa solo stare dalla parte giusta» piacque molto e fece discutere. Pensa che la sinistra sia supponente?
«Penso che la politica dovrebbe poggiare su ideali alti. E più sono alti, più è facile tradirli. O dimenticarne il peso».
Sembra una risposta affermativa.
«È una risposta sincera. Ma non riguarda solo la sinistra. Questo Paese ha avuto Berlinguer, Andreotti, Almirante, Spadolini: a loro modo tutti grandi. Oggi la politica sembra una versione modesta dei Promessi sposi: ci sono solo tanti don Abbondio, senza Fra’ Cristoforo. E nemmeno un Innominato».
Le piace Giorgia Meloni?
«È una donna che ha ottenuto quello che voleva».
L’ha mai conosciuta?
«No. Gliel’ho detto: la politica è un ambiente che non frequento».
Si chiedono molte cose di politica a Chiara Francini perché Le querce non fanno limoni, il suo nuovo romanzo, è un libro molto politico. Racconta mezzo secolo di storia italiana, dalla Seconda guerra mondiale agli anni di piombo. Al centro c’è Delia: non è un’eroina, ma una donna che ha resistito al dolore, alla guerra, alla solitudine. È un romanzo intimo, perché ciò che ci attraversa ha sempre un peso collettivo. È una storia sull’eredità che lasciamo e che riceviamo: affettiva, politica, femminile. Delia accoglie chi ha combattuto con un fucile e chi, decenni dopo, continua a farlo con altre parole, altre rabbie, altri errori. Non dimentica, ma non si ferma. Ha amato, ha perso, e ha scelto di restare viva. E da lì, di continuare a lottare.
Lei è stata una studentessa politicizzata?
«Sono sempre stata curiosa. Per scrivere questo romanzo ho studiato molto: mi interessava capire cosa succede quando la politica attraversa i corpi, le relazioni, le case. Quando diventa vita, e lascia squarci».
Ma politicizzata lo è mai stata?
«Se ero una di quelle con la maglietta di Che Guevara che andava nei centri sociali? No, mai. Ma credo che la politica la si faccia anche solo scegliendo come stare al mondo. E credo ancor di più che sia una cosa serissima, una responsabilità. Un atto di abnegazione verso il prossimo, quasi mistico. Richiede rigore, sguardo, fatica. Io ho una concezione rigida della giustizia. E capirà che se davvero facessi politica, sarei al camposanto dopo due giorni».
Chi c’era nel suo pantheon di ragazza?
«Margherita Hack, Rita Levi Montalcini, Oriana Fallaci, Don Milani».
Laureata in Italianistica. Se non avesse fatto l’attrice, cosa avrebbe fatto?«La scrittrice, l’editorialista, la produttrice, la conduttrice. Quello che faccio! Ma ho fatto anche quelli che vengono definiti “lavori normali”. Quelli con il cartellino e la pausa caffè».
Quali?
«Nell’ufficio del personale di una ditta di elettrotecnica, durante gli anni dell’università. Poi in contabilità».
Senza competenze da ragioniera?
«Cerco di non farmi mai trovare impreparata dalla vita».
Ha smesso dopo i primi programmi in Rai con Marco Giusti?
«Macché. Ho continuato anche dopo».
Come mai?
«Perché non campavo sennò! Anche i sogni hanno fame. Quando abitavo già a Roma dissi a mio padre: “Mi hanno preso a fare un corso nel quale insegnano il metodo Stanislavskij! Costa pochissimo!”».
E lui?
«Fece una pausa e poi disse: “No, hai già studiato, ora ti devono pagare!
Il lavoro si caratterizza dal fatto che dai una prestazione, in cambio ti danno dei soldi. Sennò è beneficenza. Che è una cosa nobilissima, eh, ma è un’altra cosa”».
Vive da sola?
«Convivo con lo stesso uomo da diciannove anni. Anche quella è una forma di resistenza».

La paura fa parte della sua vita?
«Mi ha attraversata, sì. Poco tempo fa è morto il mio primo fidanzato, Alessio. Un dolore grande, ma anche una rivelazione. Ho capito che quando qualcuno è vivo anche il ricordo resta acceso. Quando muore, quel ricordo cambia forma. Non è più esperienza: diventa memoria, non più condivisione, ma responsabilità. Forse è per questo che ho scritto un romanzo che guarda così tanto al passato. Perché laggiù ci sono le origini, le ferite, ma anche le forze che ci tengono su. E se impari ad attraversarlo, il passato ti dà una direzione e ti insegna a fallire».
Quanti fallimenti ha collezionato?
«Ne bastano pochissimi, se ben assestati. Ogni volta che ho dato fiducia a persone che mi hanno deluso e quindi tradito, ho sempre dato la colpa a me stessa: avevo sbagliato a fidarmi».
È rancorosa?
«Per nulla».
Vendicativa?
«Ancor meno. Non mi vendico, cancello. È una rimozione che è fatta d’oblio. Mia mamma mi ha insegnato che c’è una gerarchia dei fallimenti e del dolore, racchiusa tutta nel suo motto più famoso: “Non ti preoccupare mai se non è un male che il prete ne goda”. Il prete gode quando muore qualcuno perché prende i soldi per officiare il funerale. Significa che, se non ha a che fare con la salute, comunque vada, sarà un successo».
Due anni fa, nel suo monologo sul palco del Festival di Sanremo, ha parlato della maternità mancata.
«Era un monologo sulla donna. Su cosa significhi, per me, essere donna oggi. Ho scelto un testo mio, perché sapevo che una platea così non l’avrei mai più avuta. Volevo dire qualcosa che mi appartenesse, ma che potesse risuonare in molte. La maternità è un miracolo che solo il corpo femminile può partorire, per questo è da sempre la croce e la bellezza dell’essere donna. E anche se sei emancipata e moderna, prima o poi quel pensiero ti bussa. Ci sono donne che non lo vogliono quel miracolo, ma almeno una volta si sono chieste se quel rifiuto le rendesse sbagliate. Ci sono quelle che lo vogliono, ma non riescono e si sentono sbagliate. E poi ci sono quelle che lo vogliono e lo ottengono; ma quando arriva, quel miracolo, capiscono che forse non era un miracolo. O almeno, non lo era per loro. E si sentono morire».
S’è pentita di aver portato un monologo che scavava così a fondo nel suo intimo?
«No. Ogni volta che parlo dico ciò che penso e che sento, in modo ponderato ma estremamente puro. Quando mi racconto, mi dono, e forse le persone lo sentono. Percepiscono che le stai facendo entrare. E quando ti riconosci, ti rivedi in qualcuno, ti senti meno solo. Ed è questo che tutti noi cerchiamo: riconoscersi per sentirsi meno sbagliati, per sentirsi insieme. Desideriamo essere visti. Per poter essere amati».