La Stampa, 14 maggio 2025
Lo scontro con la Cina ora si sposta sul Golfo
Il presidente americano Donald Trump torna nel Golfo questa settimana, con tappe previste a Riad, Doha e Abu Dhabi, un viaggio che richiama la sua prima missione internazionale del 2017, oggi con la promessa di 600 miliardi da parte dei sauditi. Ma stavolta, la visita si inserisce in un contesto geopolitico profondamente mutato, dove la crescente influenza della Cina nella regione rischia di entrare in rotta di collisione con le ambizioni del tycoon.
Il ritorno di Trump in Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi Uniti è lo stesso gesto di un tempo: saluti solenni, tappeti rossi, danze di spade e soprattutto promesse opulente. Ma il mondo, intorno a questo teatro, non è più lo stesso. Se ieri il palcoscenico era dominato dagli Sati Uniti, oggi una nuova figura è uscita da dietro le quinte: la Cina. Pechino da anni agisce senza eccessivo clamore mediatico, costruisce infrastrutture, stringe accordi, offre tecnologie per la sicurezza che non fanno domande e non impongono valori. È un potere silenzioso, amministrativo, fatto di connessioni digitali ed AI, sviluppo urbano smart e soprattutto trasferimenti di tecnologia. E ora, quel potere sfiora e talvolta urta le ambizioni teatrali di Trump.
Trump, fedele a sé stesso, non offre una grande strategia a lungo termine ma cifre. Alla proposta saudita di 600 miliardi di dollari risponde con una richiesta di mille miliardi. Una somma surreale, superiore all’intero valore del fondo sovrano saudita. Ma non è il denaro in sé a contare: è il gesto, la grandezza simbolica della domanda. Trump non tratta: impone. Eppure, sotto l’apparenza delle trattative, restano le realtà strategiche che Trump ha ereditato: le più grandi basi militari americane in Medio Oriente sono in Qatar e Bahrein, aerea e navale rispettivamente. La Cina, per ora, non ha mezzi per competere su quel fronte. Ma intanto penetra, lentamente, in altri modi: software, reti 5G, blockchain, cavi sottomarini a fibre ottiche ed intelligenza artificiale. Offre tutto in un unico pacchetto, quello della Via della Seta Digitale espandendo anche le offerte di tecnologia militare dai droni da combattimento ai missili.
Allo stesso tempo sia l’Arabia Saudita che gli Emirati Arabi Uniti spingono per ottenere certezze se Washington resterà la colonna portante della sicurezza nella regione. A garantirlo, secondo le aspettative del Golfo, dovrebbero essere anche nuovi e massicci trasferimenti di armamenti ad alta tecnologia americani. Il pressing arriva dopo una fase di profondo disincanto: la percezione diffusa nella regione che la precedente amministrazione Biden avesse di fatto voltato le spalle al Medio Oriente, spostando le priorità strategiche sullo scacchiere Indo-Pacifico nel tentativo di contenere l’espansione della Cina.
Negli ultimi dieci anni i rapporti tra Cina e mondo arabo si sono intensificati e la visita di Xi Jinping a Riyad nel 2022 ne è stata una riprova. Il petrolio è il punto di partenza: un quinto del greggio cinese viene dall’Arabia Saudita, quasi il doppio dall’intero Golfo. Ma c’è di più: c’è l’ambizione di modellare il futuro digitale della regione. E in mezzo a tutto questo, Trump. Un uomo che parla di affari mentre il mondo ridefinisce equilibri, e le monarchie del Golfo sono posizionate al meglio per parlare la stessa lingua del tycoon. L’emiro del Qatar gli avrebbe promesso un “palazzo volante”: un aereo Boeing 747-8 per sostituire il vetusto Air Force One. Un regalo non solo simbolico, dal valore di 400 milioni di dollari per un potere personale che ha sempre tracciato delle linee molto vaghe tra affari di famiglia e spettacolo. Anche gli Emirati Arabi Uniti hanno promesso investimenti per 1, 4 trilioni di dollari negli Stati Uniti nei prossimi dieci anni su AI e tecnologie avanzate per diversificare l’economia degli Emirati dall’esclusiva dipendenza dagli idrocarburi. Anche il Qatar intende rafforzare ulteriormente i legami con Washington con ingenti investimenti a lungo termine e mantenere nel contempo il ruolo di mediatore in vari conflitti dalla Siria all’Afganistan. Nel frattempo, è improbabile che la diplomazia americana riprenda i negoziati per normalizzare i rapporti tra Arabia Saudita e Israele: non sono previste visite in Israele e la situazione a Gaza, sempre più critica, non sembra offrire a Trump quella vittoria diplomatica a breve termine che sperava di ottenere. Comunque, dietro le quinte, la diplomazia non si ferma: i negoziati per riportare l’Iran al tavolo sul nucleare continuano lontano dai riflettori, in Oman, un attore silenzioso ma estremamente efficiente del Golfo, fuori dall’agenda ufficiale della visita del presidente americano. La regione è diventata la plancia dove si muovono non solo capitali e contratti, ma algoritmi, dati, e apparenze di alleanze. È qui che Cina e Stati Uniti si osservano e si preparano a uno scontro silenzioso, ma destinato a decidere i futuri equilibri della regione