Corriere della Sera, 13 maggio 2025
L’incoerenza come metodo
La Casa Bianca resta il crocevia, piuttosto affollato, della politica e dell’economia mondiali. Non solo proclami, minacce. Ma anche trattative e mediazioni concrete. La lista dei dossier è lunga.
I dazi e la Cina; Putin e Zelensky; gli europei e la Nato; Gaza, Hamas e Netanyahu; il nucleare e l’Iran; l’Arabia Saudita e, ancora, Israele; la Siria; l’India e il Pakistan. Donald Trump si presenta come il leader dell’«America First»: prima di tutto gli interessi degli Stati Uniti. Potrebbe, quindi, sembrare sorprendente ritrovarlo, dopo tre mesi al potere, non in uno splendido isolamento nello Studio Ovale, bensì invischiato in un groviglio internazionale che ha pochi precedenti. Forse tutto ciò è proprio il risultato più logico della sua strategia, se così vogliamo chiamare la sequenza di strappi, oscillazioni, fughe in avanti e precipitose retromarce cui abbiamo assistito finora. Con una morale semplice quanto evidente: nessuno, neanche il capo della maggiore potenza del pianeta può illudersi di poter controllare tutte le variabili in campo. Si può dire, per esempio, che Trump sia stato trascinato di peso al tavolo del negoziato sui dazi con Pechino da Wall Street, dove il 62% di americani investe i risparmi, e dalla grande distribuzione, atterrita dalla prospettiva di scaffali vuoti e prezzi alti.
La versione trumpiana del pragmatismo, estremo fino a confinare con il cinismo, non considera l’incoerenza, la volubilità come prove di inaffidabilità, ma anzi, le interpreta come dei vantaggi competitivi. L’Ucraina è un caso esemplare. Il percorso di «The Donald» è tuttora funambolico. Prima ha maltrattato Zelensky a Washington, poi lo ha «confessato» a San Pietro e ieri gli ha intimato di andare senz’altro a Istanbul, giovedì 15 maggio, dove, ha fatto sapere, potrebbe palesarsi anche lui per incontrare Putin. Trump sembra cercare un qualsiasi punto di equilibrio tra le parti. Anche se gli ucraini dovranno rinunciare a territori sottratti con la forza e rimanere potenzialmente esposti ad altri attacchi russi. Nessun americano accetterebbe una soluzione così iniqua. Ma, visto che si parla degli ucraini, per Trump non è un problema. A meno che Putin non tiri troppo la corda o gli europei non riescano a convincere l’ex costruttore newyorkese che la sicurezza futura dell’Ucraina è cruciale per l’interesse (questa è la parola magica) dell’intero Occidente. È il tentativo condotto da Macron e dal premier britannico Starmer, insieme con il neocancelliere tedesco Friedrich Merz e il polacco Donald Tusk. Giorgia Meloni condivide l’obiettivo di fondo, cioè la «sicurezza per l’Ucraina», ma non l’ipotesi franco-britannica di inviare una spedizione militare. Forse anche per questo ha scelto, accompagnata dalle perplessità diffuse tra i diplomatici europei, di collegarsi online, anziché unirsi alla visita lampo dei quattro leader a Kiev, sabato 10 maggio. Trump è in attesa: vuole capire se giovedì prossimo Putin si presenterà davvero all’appuntamento con Zelensky. Ma se lo zar dovesse restare a casa, il presidente Usa potrebbe assecondare le proposte europee: altre sanzioni nei confronti di Mosca e, in prospettiva, copertura aerea a sostegno di una missione armata franco-britannica e di chi ci starà. A patto, però, e qui si aggancia un altro anello, che i partner Nato siano pronti ad aumentare le spese per la difesa. Trump si aspetta che il Segretario di Stato, Marco Rubio, torni con impegni concreti dal vertice informale dei ministri degli Esteri, in programma il 14 e il 15 maggio ad Antalya, in Turchia. Gli americani hanno già ottenuto, con relativa facilità, un primo successo: tutti hanno accettato di destinare alla «sicurezza» il 5% del prodotto interno lordo, con spese divise in due parti. Circa il 3,5% per le forze armate; il restante 1,5% per altre voci da definire nel negoziato, da qui al vertice della Nato in programma in Olanda il 24 e 25 giugno.
Trump è molto attivo anche nel Medio Oriente. Oggi arriva in Arabia Saudita, poi farà tappa in Qatar e negli Emirati Arabi. Il «New York Times» ha scritto che è un «viaggio da mille miliardi di dollari». Il presidente si dedicherà innanzitutto alla conclusione di affari per conto degli Stati Uniti e anche per la sua holding di famiglia. Conflitto di interesse? Sì certo, ma per Trump è una cosa naturale. Ci sarà spazio anche per la diplomazia. L’Amministrazione Usa punta a convincere Mohammad Bin Salman a normalizzare i rapporti con Israele, firmando gli accordi di Abramo. Il principe saudita ha già fatto sapere che sarà impossibile fino a quando Benjamin Netanyahu continuerà ad attaccare i palestinesi, a Gaza e in Cisgiordania. Trump, dopo qualche pressione sul premier israeliano andata a vuoto, ha stravolto ogni schema, aprendo un canale diretto con Hamas. Netanyahu si è infuriato? Hamas è classificata come un’organizzazione terroristica dagli Stati Uniti? Pazienza. Intanto ieri Hamas ha liberato l’ultimo ostaggio americano, Edan Alexander. I colloqui proseguiranno, in Egitto e in Qatar. Stessa cosa per l’iran, dove siamo già al quarto round di incontri, coordinati dall’inviato Steve Witkoff. Trump ha voluto aprire un canale diretto anche con la Siria, ignorando di nuovo, l’opposizione di Netanyahu. Gli americani hanno girato «otto domande» al regime di Damasco, guidato da al Jolani. Ne citiamo due: «Lotterete contro il terrorismo»? «Rispetterete le minoranze religiose»? Nel frattempo Trump ha incaricato Rubio di mediare anche tra India e Pakistan. Per ora, almeno lì, la tregua sembra reggere.