la Repubblica, 13 maggio 2025
Obbligati al passo indietro
La tregua di 90 giorni nella guerra dei dazi fra Stati Uniti e Cina è frutto della volontàreciproca dei due governi di compiere un passo indietro e costituisce un precedente che può favorire un’analoga intesa Usa-Ue perché nasce da una svolta che ribalta la regola di fondo del commercio internazionale: ora per gli Stati le ragioni della politica contano di più rispetto a quelle dell’economia. Da qui il commento delFinancial Times : “Siamo entrati nella stagione della geoeconomia”. Le concessioni di Washington e Pechino sono descritte dai numeri concordati dai negoziatori a Ginevra: i dazi Usa sui prodotti cinesi scendono dal 145% al 30% mentre quelli cinesi calano dal 125% al 10%.
Restano i dazi Usa su alluminio, acciaio e contro il traffico di fentanyl ma nel complesso si tratta di un passo indietro del presidente americano, Donald Trump, che nel Liberation Day aveva lanciato la guerra globale dei dazi mostrando una lavagna sulla quale indicava nella Cina il Paese più colpevole di “derubare” gli Stati Uniti. Per spiegare agli americani la scelta della tregua, Trump ora afferma: «Abbiamo ottenuto ciò che volevamo con l’apertura della Cina agli Stati Uniti mentre prima erano solo gli Stati Uniti a essere aperti alla Cina». Dunque, l’accento è sul risultato politico mentre i benefici per l’export Usa, valutati dalla Casa Bianca in circa 50 miliardi di dollari annui, sono solo il secondo esito in ordine di importanza.
Ecco perché il ministro del Tesoro Usa, Scott Bessent, spiega l’intesa con queste parole: «I nostri dazi hanno creato di fatto un embargo alla Cina, che ha dovuto cedere». È la concretizzazione della teoria di Robert Lighthizer, guru dei dazi di Trump, secondo il quale «le tariffe servono a ottenere risultati politici e sociali» prima ancora che economici e commerciali.
Ma anche Pechino afferma di aver raggiunto un successo perché l’offensiva in grande stile di Trump ha prodotto in realtà un cessate il fuoco che allontana una guerra commerciale molto temuta a causa dell’impatto dell’export sul Pil del Dragone. Per questo Zhiwei Zhang, presidente di Pinpoint Asset Management a Hong Kong, spiega alNew York Timesche «per la Cina si tratta di un successo perché Pechino ha adottato la linea dura davanti alla minaccia delle tariffe Usa ed è riuscita a farle abbassare in maniera significativa senza fare concessioni». Nulla da sorprendersi dunque se Trump e Xi Jinping fanno sapere che si parleranno alla fine della settimana per decidere in che direzione procedere per trasformare la tregua in un vero accordo. Si parla anche di un possibile summit.
Il linguaggio di Washington e Pechino è in sintonia perché ciò che le accomuna è quello che l’economista Joseph Stiglitz definisce «il nuovo mercantilismo»: se la Cina comunista ha da sempre un’economia centralizzata, con forti sussidi alle aziende private e vede nel commercio il prolungamento degli interessi strategici, ora anche l’America di Trump è sulla stessa linea d’onda perché punta sui dazi per riportare le manifatture dentro i propri confini, trasformando energia e commerci negli strumenti dell’unilateralismo per imporsi sulla scena globale.
Protezionismo, tariffe e neo-mercantilismo accomunano i due giganti economici del Pianeta, facendo della loro tregua sui dazi un modello possibile di compromesso con l’altra grande potenza commerciale con cui Washington sta trattando: l’Unione europea. E a ben vedere anche l’intesa sui dazi fra Usa e Gran Bretagna è basata sullo stesso principio perché, sebbene costruita sulla minaccia a Londra di dazi assai più bassi, è stata presentata da Trump e Keir Starmer come la conferma «che Washington e Londra sono da sempre i più stretti alleati». Il premier britannico, complice il calendario, si è spinto fino a paragonare l’intesa sui dazi con la vittoria congiunta alleata contro il nazifascismo, evocando Churchill. Ovvero, anche qui l’enfasi è stata su politica e strategia.
Nulla da sorprendersi dunque se ilFinancial Timestrae conclusioni che vanno ben oltre la tregua Usa-Cina appena siglata: “I governi non sono più concentrati sul benessere delle nazioni bensì sulle loro posizioni” strategiche. Se a fine Ottocento prevaleva la visione imperialista del capitalismo e con la Prima guerra mondiale arrivò il protezionismo di governi nazionalisti, dopo il 1945 si affermò la visione keynesiana dell’economia che venne poi sostituita dal libero mercato e, terminata la Guerra fredda, dalla globalizzazione. Ma adesso si torna indietro: verso un nazionalismo protezionista con cui anche l’Ue è obbligata a fare i conti. Tanto più che Trump la provoca, cercando lo scontro come si fa attorno a un tavolo da poker: «Siete più cattivi dei cinesi».