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 2025  maggio 13 Martedì calendario

Il Papa e l’intuito del tempo

Di fronte alla vertiginosa accelerazione del nostro tempo, papa Francesco ha riportato la teologia a un contatto vivo con la realtà, dandogli valore nei termini di una teologia pubblica, dirigendo la riflessione a servizio della società plurale nel suo insieme. Lo ha fatto non solo aggiornando il vocabolario, ma riscoprendo la necessità di un pensiero istintivo, rapido nel cogliere le mozioni dello Spirito nel cuore stesso del cambiamento, valorizzando l’inquietudine agostiniana (e dunque leonina) da lui più volte citata.
È in questo senso che Francesco ha restituito dignità all’intuito, inteso come mediazione tra sapienza e istinto. L’istinto teologico non è reazione impulsiva, ma attenzione sottile e affinata ai movimenti interiori che segnalano la presenza di Dio nella storia per interpretarli. Ignazio di Loyola li definiva “mozioni” e non separava mai “pensare e sentire”, verbi che nei suoi testi sono inseparabili. Bergoglio lo diceva ai suoi a Buenos Aires già nel 2004: «Nemmeno all’uomo più sordo alla voce di Dio manca l’istinto di sapere dove Egli si trovi e in che direzione vada cercato». E parlò di «istinto evangelico» e «istinto della fede».
In un tempo in cui la nostra capacità di conoscere sembra scissa tra pensiero tecnico e neo-sciamanesimo, la teologia per Francesco non doveva ridursi a pensiero tecnico. Per comprendere la radicalità di questa intuizione bisogna risalire alla fonte che alimenta il pensiero del Papa. Figlio spirituale di sant’Ignazio di Loyola, Bergoglio ha fatto sua una visione del discernimento come ascolto delle inclinazioni intime che, se ben riconosciute, possono guidare l’uomo a Dio. Come i cacciatori del paleolitico, che si muovevano guidati da istinto e prontezza, senza il conforto di una via tracciata, così anche il credente è chiamato a un’attenzione mobile, flessibile, sintonizzata sul battito vivo della realtà. Così Francesco si è mosso sulle strade accidentate di questo nostro mondo alla caccia di Dio, dove Dio è a caccia dell’uomo, da vero “segugio celeste” (the Hound of Heaven), come lo definiva Francis Thompson, ripreso da Tolkien e da Chesterton.
Questa è la lezione più radicale che Francesco ha consegnato alla teologia contemporanea: non può più permettersi di essere soltanto “agricola”, calibrata sui tempi della semina e del raccolto, e fondata sulla paziente sedimentazione di concetti. Non si può relegare la rapidità della caccia alla “pastorale”, lasciando alla teologia la poltrona. In un’epoca di rapidi mutamenti antropologici, climatici, sociali, è necessaria una teologia che assuma dall’imprinting ancestrale della caccia la rapidità, l’intuizione, ilmovimento, i tempi. «Cercare e trovare Dio in tutte le cose», diceva Ignazio. Per questo Francesco con la sua Costituzione apostolica Praedicate evangelium aveva ridato priorità al Dicastero per l’evangelizzazione, perfino rispetto a quello per la dottrina della fede. La dottrina è funzionale alla missione, e non viceversa. Che un papa come Leone XIV scelga il suo nome sulla base di una urgenza pastorale come l’intelligenza artificiale, individuata con intuito teologico come «nuova sfida», è una prova coraggiosa di questa radicale conversione missionaria.
Occorre abitare il cambiamento elaborando una teologia che si muova con passo leggero, come un cacciatore sulle tracce del mistero. Non si rinnega la necessaria lentezza della coltivazione teologica, ma la si integra con l’istinto teologico, senza perdere il contatto con il rapido sviluppo dei tempi che viviamo. C’è un passaggio fondamentale nel discorso di Leone ai giornalisti: «Viviamo tempi difficili da percorrere e da raccontare, che rappresentano una sfida per tutti noi e che non dobbiamo fuggire. La Chiesa deve accettare la sfida del tempo». Ecco un altro papa per il quale l’importanza del tempo supera quello dello spazio. E conclude con sant’Agostino: «Noi siamo i tempi».
Uno dei punti radicali dell’approccio bergogliano alla riflessione è stato che essa debba nascere dall’esperienza: il concetto nasce dal contatto. L’istinto spirituale è quello di chi sente la presenza dell’animale prima di vederlo, il credente – e con lui il teologo – è chiamato a sviluppare un senso dell’orientamento interiore, a percepire la voce dello Spirito che soffia dove vuole. Per questo motivo Francesco ha più volte ammonito contro una teologia da casta, che parla di Dio ma non lo riconosce nei crocevia del mondo. “La realtà è superiore all’idea” è uno dei principi guida del pensiero bergogliano, e in esso si riflette questa teologia in movimento, che sa agire prima ancora di aver spiegato tutto, perché vive della logica dell’incarnazione, non dell’astrazione.
Nel mondo contemporaneo, dove le decisioni si prendono con uno swipe e dove il pensiero lento rischia di rimanere escluso dalle dinamiche sociali, la riscoperta dell’istinto spirituale è anche frutto di genio, con le sue possibili polarità contraddittorie. Bergoglio ha dimostrato questo genio, come uno scrittore del calibro di Javier Cercas è stato in grado di notare nel suoIl folle di Dio alla fine del mondo. Ed è ciò che Leone ha chiesto: «Non cedere mai alla mediocrità».
Francesco ci ha insegnato che Dio non abita solo nei recinti o nei trattati, ma si muove, sorprende. Ecco perché oggi non serve una teologia «raffinata» perché flaccida ed’antan. Serve una teologia in grado di inseguire Dio nella selva delle contraddizioni, allenata sul campo, non pompata con gli steroidi da palestra intellettuale. E in questo doppio respiro – tra la caccia e l’agricoltura – si gioca molto del futuro della Chiesa.