la Repubblica, 13 maggio 2025
Dai curdi alle crisi nel mondo Erdogan senza più avversari è il perno di tutte le mediazioni
Erdogan non si vede ma piglia tutto. Nel tempo della diplomazia urlata su Truth, il rais di Ankara si scorge appena, non twitta, resta defilato e nel frattempo cuce, gioca di sponda e s’impone.
Succede nel Medio Oriente riscritto dalle guerre israeliane, dove la Turchia conquista spazi e potere; nel mare nero del conflitto russo-ucraino, con Ankara alleata sia di Kiev che di Mosca e prima tra i mediatori; ma anche nei Balcani, in Libia, nel Corno d’Africa dove sempre più estesa è la sua influenza. E ovviamente in Turchia, dove l’opposizione è con le spalle al muro.
Giovedì, Erdogan tenterà il colpo che potrebbe blindarlo sul trono dei leader globali: una nuova mediazione tra russi e ucraini dopo quella fallita nel 2022 ma riuscita l’anno successivo con l’accordo sul grano. Sempre a Istanbul, dove potrebbe arrivare anche l’ “amico” Trump, che gli ha riconosciuto il ruolo di gran visir nel conflitto del decennio. Con qualche ragione.
Unico tra i leader Nato, dall’inizio della guerra Erdogan è riuscito a trattare con tutti senza allearsi con nessuno, continuando a fare affari con Mosca e rifiutandosi di aderire alle sanzioni Ue contro Putin, mentre vendeva droni a Zelensky e gli offriva l’ombrello della Nato.
Al vertice di Istanbul, il rais arriva rafforzato anche sul piano interno, dopo che le comunali dello scorso anno sembravano averlo indebolito consegnando le grandi città all’opposizione. E invecel’annuncio, ieri, del disarmo e dello scioglimento del Pkk, organizzazione considerata terroristica anche da Stati Uniti ed Europa, promette di donargli una nuova longevità politica. Dopo quattro decenni e 40mila morti, il gruppo fondato nel 1978 da Abdullah Ocalan dichiara esaurita la sua missione storica, che ha «portato la questione curda alla risoluzione attraverso la politica democratica». Una decisione «importante per il mantenimento della pace e della fratellanza», ha commentato il presidente, che con l’alleato nazionalista Devlet Bahçeli e gli apparati del deep state turco preparava la svolta da mesi. In Turchia i curdi sono 15 milioni: il partito che li rappresenta in Parlamento, il Dem, è stato cruciale nella mediazione. E se il processo dipace non naufragherà, come accadde nel 2015, i suoi voti potrebbero rivelarsi determinanti per consentire al rais di cambiare la Costituzione e ricandidarsi nel 2028 o per indire elezioni anticipate, magari in cambio della liberazione dei politici e degli amministratori curdi che affollano le prigioni turche – il leader Selahattin Demirtas ha una condanna a 42 anni. Con l’opposizione frantumata dalla campagna giudiziaria che ha portato all’arresto del principalesfidante di Erdogan, il sindaco di Istanbul Ekrem Imamoglu, e di molti dirigenti del partito repubblicano, nel silenzio sostanziale dell’Occidente, per il presidente si apre un’autostrada.
Soner Cagaptay, direttore del Turkish department del Washington Institute, azzarda una previsione: «Il partito pro-curdo potrebbe sostenerlo alle prossime elezioni». Ma il dividendo politico non riguarda solo gli affari interni.
Lo scioglimento del Pkk potrebbe avere un effetto domino in Iraq, dove Erdogan punta da tempo a rafforzare i legami con Baghdad e il Kurdistan di Barzani, e ora può riuscirci, complice anche l’indebolimento dell’Iran nella regione. E nella Siria governata dall’alleato al Sharaa, il giovane ex qaedista Jolani che ha conquistatoDamasco proprio con l’appoggio dei turchi. Ankara vuole smantellare le Ypg, che considera il braccio siriano del Pkk, e spingerà perché si realizzi l’accordo tra i curdi delle Sdf guidati dal generale Mazloum Abdi e la nuova amministrazione di Damasco con lo scioglimento delle Sdf dentro il costituendo nuovo esercito siriano.
L’alternativa è, come sempre nella diplomazia erdoganiana, la pistola sul tavolo: una nuova operazione militare turca nel nord della Siria.
Gli Stati Uniti di Trump, che pure sono alleati delle Sdf, sono pronti a offrire un assist al rais, ritirando i soldati dal nord-est della Siria, che i curdi controllano, e rimuovendo le sanzioni al Paese ormai “ripulito” dall’influenza russo-iraniana.
Washington e Ankara viaggiano in sintonia, è un fatto anche personale. Trump ammira l’uomo forte Erdogan, che riesce a mediare con i russi, gli ucraini, a farsi voce di de-escalation nelle tensioni tra indiani e pakistani. Quando cadde Assad, il presidente americano osannò l’impresa erdoganiana, che aveva «riconquistato la Siria alla Turchia dopo millenni». Giovedì, europei e americani torneranno alla corte del rais, bisognosi dei suoi uffici. Alla finestra, a osservare con inquietudine, resta un altro “uomo forte” della regione: Benjamin Netanyahu, che dall’ascesa della grande Turchia, influente anche ai confini di Israele, è preoccupato quanto, se non di più, che dall’arcinemico Iran.