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 2025  maggio 13 Martedì calendario

Niccolò Fabi, il nuovo album nel giorno del suo compleanno: “Mi sono fatto un regalo: la libertà”

Libertà è nello sguardo di un bambino, nelle cadute in bicicletta sulla via del mare, nei gavettoni dell’ultimo giorno di scuola. “Libertà è una parola con tanti significati, ma per me è legata a un periodo della vita totalmente privo di malizia, in cui si fanno cose per il semplice gusto del divertimento, senza troppe ambizioni, aspettative o preoccupazioni. Arrivato alla soglia dei 57 anni, ho voluto recuperare quello sguardo, concedendomi il regalo di un disco nato in una baita di montagna, durante una vacanza con gli amici”. Niccolò Fabi, questo “signore” romano “di una certa età”, non è un artista di quelli che non smetterebbero mai di salire sul palco. Anzi, è uno che mette sempre più spesso in discussione la propria capacità di creare cose nuove (“sono un torrentello di montagna in cui tanta acqua è già passata”). Eppure, la sua capacità di camminare in bilico tra la tradizione e il tradimento ha la forza attrattiva di una calamita per un pubblico che rivede nelle sue emozioni le proprie. Il nuovo album, “Libertà negli occhi”, uscirà appunto il giorno del suo compleanno, il 16 maggio.
Fabi, perché parla di un regalo a se stesso?
Mai come in questo caso, non ho considerato il rapporto con l’esterno. Non sentivo l’esigenza della pubblicazione, perché non ero e non sono convinto che queste canzoni aggiungano qualcosa a quanto ho detto finora. Meritava di essere testimoniata la libertà con cui le ho scritte. Non sto parlando di essere indifferente al pubblico, agli amici o alla discografia – è grazie a loro che faccio la vita che ho sempre sognato –, ma sono arrivato al punto in cui non sono più così preoccupato di piacere agli altri. E questa è una caratteristica di me che chi si è affezionato a me apprezza, riconoscendomi l’autenticità. Ecco, questo disco è autentico, e gli riconosco un valore di grande donazione: a me soprattutto (ride).
Ok, ma questa vacanza?
Dieci giorni nello chalet sul Lago dei Caprioli di Pellizzano con gli amici Bob Angelini, Alberto Bianco, Filippo Cornaglia, Riccardo Parravicini, Emma Nolde e Cesare Augusto Giorgini. Per dirle il clima: io dormivo su una brandina vicino agli strumenti, Bob in una tenda nella sala ristorante. Una cosa a metà tra un ritiro scout e un Interrail. Dovevo uscire dal discorso della produzione come lavoro di raffinatezza: non sentendo più in me la forza della cascata ma essendo, appunto, un torrentello, non mi potevo permettere di indebolire ulteriormente la forza comunicativa con un album di precisione. Avevo già 4 o 5 brani strutturati nella testa, alcune cose invece sono proprio nate lì. Il disco è stato registrato in baita, e poi ha avuto solo 4 giorni di mix: un miracolo. Quei dieci giorni rimarranno una delle cose più importanti che ho fatto, non so se lo sarà il disco ma quell’esperienza sì: io quella offro.
Come quell’estate da bambini che non si scorda mai. Ma lei che bambino era?
Come lo può immaginare vedendomi oggi. Due cose però erano già chiare. Non avendo particolare destrezza nel gestire gli strumenti né la vocalità di alcuni miei compagni, non avrei mai pensato di fare il musicista. Però avevo la netta sensazione che, malgrado la mia timidezza, quando prendevo la parola succedeva qualcosa. La mia presenza era comunicativa. Lo vedevo a scuola, quando salivo sul palco durante l’autogestione al liceo Tasso, agli esami: quando blateravo qualcosa diventando rosso, sudando, in maniera molto poco sicura, eppure quell’insicurezza era una grande chiave comunicativa col mondo.
Che poi è quello che è rimasto.
È una caratteristica personale che magari mi sarei ritrovato in qualsiasi altro mestiere. Questa sensibilità mi ha permesso non dico di scrivere bene – non credo di scrivere bene – ma di scrivere cose che altri non scrivono.
Prova spesso a cercare nuove sonorità, nuovi modi di scrivere e di comporre, ma alla fine sempre allo stesso punto si arriva: come canta in uno dei nuovi brani, “nella pausa che c’è tra capire e cambiare”. Quella stessa linea sottile che era la copertina dell’album “Tradizione e tradimento”.
Gliel’ho detto che non c’è niente di nuovo! (ride) Ho un’identità ben precisa, ma non è motivo di orgoglio, è anche un grande peso. Anche fisicamente sono asimmetrico: a un occhio mi mancano 4,5 gradi, all’altro nulla. C’è una conflittualità tra una parte alta e quella materiale. Sono un Toro ma anche un Acquario. Sono nato pariolino da madre nobile, ma questo mi crea problemi. Insomma, io vedo le cose in un modo e nel suo opposto, in un’oscillazione perenne.
Ora che si sente più libero, anche di creare brani da sei minuti, come valuta la scena musicale contemporanea, con i tormentoni e l’auto-tune?
C’è un brano, “Custodi del fuoco”, che affronta il nodo della difficoltà delle persone più grandi a giudicare la contemporaneità. Si può cadere in due posizioni integraliste, entrambe farlocche: o l’accettazione entusiastica della modernità, o l’opposto: la nostalgia verso un tempo passato che fa sentire come peggiore quello presente. Come quando si pensa che l’estate dell’anno prima sia stata meglio di quella presente. Non credo che l’anno scorso sia meglio. Nessuno, col suo vissuto, può essere obiettivo, ma ricordiamoci che la musica è sempre stata lo specchio di un periodo storico. La canzone è un genere che vive da un centinaio di anni e oggi, a 60 anni dai Beatles, un ragazzo che scrive canzoni si trova in mano una patata bollentissima. La creatività passa anche attraverso la negazione della forma precedente: i nostri nonni pensavano che il rock fosse tutto un unico suono, ma i Led Zeppelin non erano i Deep Purple che non erano i Police. La modernità è necessaria. Neanche la musica di oggi, a ben guardare, è tutta uguale. Dal punto di vista dei contenuti è una forma abbastanza povera di contenuti, c’è molta descrizione della realtà, una sorta di modalità fotografica. Il limite, quindi, è che possa deperire facilmente, mentre una canzone che va verso il sogno ha maggiori speranze di rimanere. Poveri ragazzi, non è per niente facile.
A luglio 2024 l’esperienza del Circo Massimo con Silvestri e Gazzè, a dieci anni dal disco e dal tour del “Padrone della festa”. Cosa le ha lasciato stavolta?
È stato un concerto più interessante musicalmente, perché ci siamo concessi la libertà di scegliere brani che non fossero solo grandi successi. Sto sempre bene a destra o a sinistra di qualcuno, quando non sono al centro, però cantare “Facciamo finta” (la canzone per la figlia Olivia, scomparsa a quasi due anni nel 2010, ndr) davanti a 50mila persone, percepire la loro emozione, è stato un terremoto. Mi sento più a mio agio quando posso affermare la mia sfumatura senza avere l’obbligo di ripeterla tutto il tempo. E anche per il pubblico significa non stare due ore in apnea… (ride) Nel 2014 non avevo le certezze che ho ora, e dal punto di vista artistico nulla potrà essere così forte come quel periodo, tanto è vero che subito dopo è nato il mio disco della vita, “Una somma di piccole cose”. Ora i miei passi verso la consapevolezza li ho fatti. E posso godermi la mia libertà.