Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  maggio 12 Lunedì calendario

Intervista a Luca Ward

Luca Ward da voce storica del Gladiatore a megafono di una pace “disarmata e disarmante”, esattamente quella disegnata in maniera formidabile dalle parole del neoeletto Papa Leone XIV. Un messaggio che non può non passare per il Mediterraneo.
Il grande doppiatore e attore italiano che nella sua carriera ha prestato al voce a nomi come Hugh Grant, Samuel L. Jackson, Russel Crowe, Pierce Brosnan, Keanu Reeves e Gerald Butler, mercoledì 14 maggio al Teatro Grandinetti di Lamezia Terme assieme all’Orchestra Filarmonica della Calabria, si servirà delle note del compositore Sergej Sergeevi Prokof’ev, autore di Pierino e il lupo, composizione simbolica della forza e del coraggio di un bambino capace di sconfiggere la fiera con la sua astuzia e senza nemmeno un colpo d’arma da fuoco. Ward, con la sua voce inconfondibile e il suo carisma, sarà il narratore perfetto per accompagnare il pubblico alla scoperta di una delle opere più celebri del grande musicista nato in Ucraina nel 1891, evento conclusivo del Mediterraneo Radio Festival, rassegna diretta dal Maestro Filippo Arlia che, in partnership con RaiRadio3, unisce la musica e la cultura del mare.
I romani chiamavano il Mediterraneo  Mare nostrum. Papa Francesco nel 2013 l’ha invece definito «il più grande cimitero d’Europa». Secondo lei la cultura può fare qualcosa per invertire questa tragica rotta?
«Sono gli uomini che devono invertire queste dinamiche micidiali che ormai sono anni che ci accompagnano. La cultura può fare molto per sensibilizzare le anime, le coscienze e le persone, però poi noi non comandiamo nulla. Comandano altri purtroppo…».
Pierino e il lupo, cui fra due giorni presterà la sua voce a Lamezia, può essere letto, secondo lei, come un manifesto per la pace e per il disarmo?
«Sarebbe auspicabile. Io quando sento parlare di soldi per armi, carri armati, cannoni in linea di massima mi incazzo perché mi chiedo di cosa stiamo parlando... Abbiamo un mondo che va in in malora con miliardi di cose molto più importanti alle quali pensare e noi perdiamo il tempo a farci le guerre. Ma basta! A questo però si deve aggiungere anche un’altra valutazione. C’è troppa gente in giro che quando sente parlare di guerre fa spallucce…».
Suo figlio si chiama proprio Lupo. Come mai lei e sua moglie avete scelto questo nome?
«Perché è un nome importante che ha una storia importante. Viene dai combattenti che partivano per le Crociate e spesso sceglievano come nome di battaglia proprio Lupo. Perché il lupo è colui che comanda, decide, ma soprattutto tiene unito il branco. La cosa più importante. Oggi, invece, siamo ognuno per sé e Dio per tutti ma non dovrebbe essere così. Dovremmo tornare a unirci, a stare insieme, a parlare, a discutere piuttosto che a sfogarci solo sui social che non serve assolutamente a niente».
Lei a teatro con Il talento di essere tutti e nessuno tiene unito il pubblico che è il suo branco. È così?
«Quello è uno spettacolo di prosa interattiva. Il pubblico interagisce con me, faccio fare loro il doppiaggio dei grandi film, dei cartoni animati, insegno ad essere cattivi per finta, perché io tanto in tv faccio solo i cattivi. I buoni non me li fanno proprio fare (Sorride). E poi è lo spettacolo che conserva ancora oggi il record di standing ovation...Come si dice: ci dispiace per gli altri! (Ride)».
Suo nonno è stato comandante della Marina. Sente un po’ questo sangue americano scorrere nelle sue vene oppure è solo un’eredità lontana?
«Non è lontana, assolutamente. Io porto un cognome americano di origini inglesi. Sono stato a Boston proprio poche settimane fa a portare il mio spettacolo là dove mio nonno viveva e aveva la compagnia di navigazione lì. Ho molti legami con gli Stati Uniti, con le mie origini che mi portano spesso ad andare lì».
Perché secondo lei in Europa facciamo così fatica, ad esempio, a capire il Make America great again di Trump?
«Gli Stati Uniti sono un mondo a parte. Sono una nazione, gigantesca, enorme. Tutto quello che succede negli Stati Uniti è di difficile comprensione per noi anche perché ci limitiamo ad esaminare solo la superficie e non andiamo mai in profondità. Togli New York, Los Angeles, Miami, resta un paese di grandi praterie, del far west. Nei talk show sento parlare d’America persone che al massimo sono state in vacanza a Saturnia. Gente che non conosce gli Stati Uniti e diffonde informazioni sbagliate… E questa è la cosa più grave. Il popolo americano è un grande popolo di fronte al quale bisognerebbe inchinarsi. Poi alcune cose sono condivisibili e altre no... Ora sento che tutti parlano dei dazi, senza pensare che fanno rima con sticazzi! (Ride). Che se ne occupino economisti e industriali. Sono convinto che risolveremo anche questo problema, anche perché noi italiani siamo abilissimi nell’aggirare gli ostacoli…».
Non per contraddirla ma è proprio tema di questi giorni la questione dei dazi anche applicati al mondo del cinema. Ad esempio alle produzioni Usa che vengono a girare in Europa magari per risparmiare a livello fiscale…
«In realtà a una produzione americana venire a girare in Italia non costa affatto poco anzitutto per le spese che una produzione deve sostenere per spostarsi. I registi scelgono di venire in Italia perché il nostro Paese è un set a cielo aperto e quando in un film vedono Roma, Milano, Napoli, Torino, Genova, Palermo, il pubblico impazzisce… Lo fanno perché poi c’è un riscontro di portata mondiale in quanto il nostro è un Paese fantastico…».
Quindi lei auspica che questo scambio continui?
«Ma certo! Negli anni ‘70 e ‘80 eravamo invasi dalle produzioni americane a Cinecittà. Che tornino in massa perché significa lavoro per tutti, a partire dalle maestranze e dai tecnici italiani che sono poi considerati i migliori del mondo!».
In tal senso il doppiaggio si può considerare anche uno strumento di dialogo e confronto culturale?
«Doppiamo film da più di 70 paesi, rendendo comprensibili anche produzioni in lingue di paesi lontanissimi come il Vietnam, la Cambogia, il Giappone, la Malaysia...E come scordare la Corea che oggi va fortissima grazie a un popolo fatto di persone assolutamente in gamba. Doppiare è mettere in comunicazione il mondo».
Ha detto che le è mancato di doppiare Gesù. Saprà che Mel Gibson sta arrivando a Cinecittà con la sua Resurrezione di Cristo. Quale occasione migliore di questa?
«No, sono troppo grande ormai… Poi sembra che lo farà parlare per lo più in aramaico quindi...». (In The Passion le parti in aramaico e latino furono solo sottotitolate, ndr).
Ma invece si può dire che al Gladiatore 2 sia mancata la genialità del suo memorabile «Al mio segnale scatenate l’inferno»?
«Parlo con il massimo rispetto per Ridley Scott che è un gigante, però credo che al Gladiatore 2 manchi proprio la potenza della storia che c’era nel primo… Certi film non si dovrebbero proprio toccare. Poi anche nelle scene delle battaglie nel sequel hanno fatto molto molto uso dell’Intelligenza Artificiale. Nel primo, invece, c’erano gli stuntmen veri… E la differenza si nota…».
Un discorso che vale anche per il doppiaggio?
«È pericoloso far passare il messaggio che tutto possa diventare robotico… Ho sentito dire che vogliono partire dai cartoni animati. E questa sarebbe una scelta secondo me criminale. Partire dai bambini perché non hanno la capacità di capire se la voce sia di un robot. Mi auguro che almeno abbiano il coraggio di far parlare con l’AI i protagonisti dei grandi film, così vedremo se il pubblico li accetterà oppure no…».