Libero, 12 maggio 2025
Il giudice che alla fine dell’Ottocento scoprì la mafia prima che diventasse mafia
L’esistenza della mafia fu scoperta nel 1838, anche se non era ancora chiamata a quel mondo, e anzi veniva confusa con la camorra. Lo spiega un libro che racconta appunto del giudice che fece questa scoperta, e che si chiamava Pietro Calà Ulloa: Nascita della mafia. Storie di «uomini d’onore» istruite in Sicilia (1838-1846) da Pietro Calà Ulloa, il Procuratore generale del Re che scoprì la piovra (Navarra Editore, 475 pp., 20 euro). L’autore è Salvatore Mugno: giornalista e saggista trapanese autore di altre opere su Mauro Rostagno, Matteo Messina Denaro, Giangiacomo Ciaccio Montalto e Giovanni Falcone. Insomma, uno studioso della mafia più recente, che però si è lanciato in una ricerca certosina negli archivi di Napoli, Palermo, Messina e Trapani, per ricostruirne le radici. Oltre i due terzi del volume sono infatti dedicati a “Storie”: 38 casi sui cui Ulloa indagò, tra 1838 e 1844. Nato a Napoli il 15 febbraio 1801, figlio del Duca di Lauria e di una nobildonna irlandese, ridotta però la famiglia in cattive condizioni economiche per via dei provvedimenti contro la feudalità presi da Gioacchino Murat, Pietro Calà Lanzina y Ulloa andò a nove anni al collegio militare della Nunziatella, per poi studiare al Real Liceo del Salvatore, e lavorare nella direzione della Pubblica Istruzione. A 19 anni scrisse un saggio sull’economista Jean-Baptiste Say, uno dei primi grandi teorici del liberismo. A 28 divenne professore di eloquenza nel Regio Collegio militare. A 32 iniziò una collaborazione con giornali letterari e scientifici, cercando di influenzare il nuovo re Ferdinando II in chiave riformista. Ma divenne anche un avvocato di successo, si mise a scrivere testi giuridici, e così finì il 31 dicembre 1837 per essere nominato Procuratore generale presso la Gran Corte Criminale di Trapani. Lì esercitò le sue funzioni fino al 1844. Fautore di una evoluzione costituzionale in un Regno delle Due Sicilie che avrebbe però secondo lui restare indipendente e al massimo aderire a una confederazione italiana, da Francesco II assediato a Gaeta nell’ottobre del 1860 accettò una carica di primo ministro in extremis, mantenuta dopo la resa in un governo in esilio fino a Porta Pia. Solo nel 1870 accettò il Regno d’Italia per tornare a Napoli, dove morì il 21 maggio 1879.
Dalla Storia, è stato finora ricordato soprattutto per quest’ultima vicenda. Ma Mugno sottolinea come furono le sue due relazioni del 25 aprile e del 3 agosto 1838 a delineare per prime una nuova fenomenologia criminale «che si sostanzierebbe in una emergente struttura unitaria associativa, già a livello provinciale e perfino regionale, formata da fratellanze, sette o partiti, come egli li chiama». Certo, non usa i termini mafia e mafioso: «verosimilmente li sconosce del tutto». Ricorda il libro che la parola inizia a diffondersi nel 1863 dopo la rappresentazione di un testo teatrale che si intitola I mafiusi di la Vicaria, mentre dal punto di vista giudiziario è usata per la prima volta in un rapporto del Prefetto di Palermo del 25 aprile 1865. Ma Ulloa, secondo Mugno, già «dipinge eun fenomeno ancora in nuce, lo stesso che circa centocinquant’anni dopo due suoi altrettanto illustri e del pari bistrattati colleghi, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, dimostreranno esistere, in modo finalmente incontrovertibile, anche giudiziariamente, attraverso il maxiprocesso di Palermo degli anni Ottanta e Novanta del Novecento».