Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  maggio 12 Lunedì calendario

Petrolio, Riad innesca la guerra dei prezzi e schianta i colossi Usa

Le avvisaglie sono chiare e, a questo punto, i dubbi riguardano solo l’obiettivo di fondo. Perché l’Arabia Saudita vuole trascinare il mondo verso una nuova guerra dei prezzi del petrolio? Da un mese Riad sta pilotando un aumento della produzione che sta schiantando le quotazioni e assestando un colpo, tra gli altri, ai produttori di greggio da scisto americano, a cui Donald Trump chiede di aumentare la produzione allentando i vincoli alle trivellazioni con il piano “Drill, baby Drill”.
Lunedì l’Opec+, il cartello dei produttori con l’aggiunta della Russia, sotto la spinta di Riad, ha deciso il secondo aumento mensile della produzione (+411mila barili al giorno). La decisione ha accentuato il calo dei prezzi innescato dai timori che i dazi voluti da Trump causino una recessione mondiale. Il greggio Brent, riferimento per le quotazioni, è sceso a circa 60 dollari al barile, il livello più basso da quattro anni (-30% rispetto ai picchi di luglio). In termini nominali – ha notato Javier Blas di Bloomberg – è al livello di 20 anni fa ma, al netto dell’inflazione, è più economico rispetto a quello della metà degli anni 80. Uno choc.
Apparentemente è una mossa autolesionista. Aumentare l’offerta riduce i prezzi e danneggia i bilanci dei Paesi produttori, le cui entrate dipendono dal petrolio. L’Arabia Saudita ha bisogno di un greggio a 90 dollari a barile per tenere i conti in equilibrio mentre investe pesantemente per diversificare l’economia. Riad giustifica la misura con la volontà di punire alcuni membri dell’Opec+, come il Kazakistan, che violano le quote stabilite, producendo di più. L’idea è di far scendere i prezzi per costringerli a ridurre l’offerta, ma è difficile credere che sia il vero obiettivo, tanto più che difficilmente Astana ridurrà l’offerta di petrolio: ha bisogno di entrate e nei suoi più importanti giacimenti sono coinvolte le grandi compagnie internazionali (Chevron, Shell, Eni etc.) che potrebbero tagliare gli investimenti se costrette a produrre meno.
Qual è allora l’obiettivo? Non è la prima volta che Riad avvia una guerra dei prezzi, inondando il mercato di petrolio in scia a crolli delle quotazioni innescati da eventi sistemici. È successo nel 2020, con la pandemia, ma anche nel 2014 quando i sauditi approfittarono di un crollo della domanda per il rallentamento cinese per assestare un colpo ai produttori americani di greggio da scisto. Lo scisto è una roccia sedimentaria che contiene petrolio (o gas). Nel 2010 la rivoluzione del fracking, che permette di frantumare la roccia ed estrarne il contenuto, ha trasformato gli Usa nel primo produttore mondiale, con 13 milioni di barili al giorno. Il tallone d’Achille è il prezzo, perché lo shail oil ha costi alti. Sotto gli 80 dollari a barile, non è conveniente espandere le produzioni, sotto i 70 i margini si assottigliano molto.
In campagna elettorale Trump ha promesso un aumento della produzione nazionale. Appena eletto ha firmato due ordini esecutivi per incentivare le trivellazioni. Il tycoon è ossessionato dall’idea di far scendere il prezzo del petrolio per ridurre l’inflazione, tema su cui l’elettorato americano è assai sensibile. Si è più volte appellato all’Opec+ affinché aumentasse la produzione e ha spiegato che il calo dei prezzi può mettere pressione alla Russia – le cui entrate dipendono dal petrolio – per spingerla a fermare la guerra in Ucraina.
Le mosse di Riad sono un assist a Trump, che la prossima settimana visiterà proprio l’Arabia Saudita. I sauditi puntano a chiudere diversi accordi, ma l’obiettivo di fondo non sembra ingraziarsi il presidente Usa, quanto, al solito, conquistare quote di mercato indebolendo i concorrenti, approfittando della situazione. E in prima fila ci sono proprio i produttori da scisto americani, che hanno appoggiato la scalata di Trump.
Martedì due colossi del settore hanno annunciato un taglio alle nuove trivellazioni. Diamondback Energy, uno dei più grossi del bacino del Permiano nel Texas occidentale, il più grande giacimento Usa, ha detto che le ridurrà del 15% e annunciato che, con questi prezzi, gli impianti diminuiranno del 10% entro giugno e la produzione americana scenderà già da questo trimestre. Un ruolo ce l’hanno anche i dazi, che colpiscono i fornitori dei macchinari. A marzo, il segretario all’Energia Chris Wright aveva minacciato i produttori, spiegando che possono mantenere la promessa di Trump di “trivellare, tesoro, rivellare”, anche con prezzi sotto i 50 dollari a barile. Non sta andando così. E, alla lunga, potrebbe essere un grosso problema per i piani e le promesse del tycoon.