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 2025  maggio 12 Lunedì calendario

La Storia siamo noi

«Noi, tutti rinchiusi negli spogliatoi dell’Olimpico, tra televisioni e radioline accese, le mani nei capelli e un’attesa snervante. Ma come è possibile dimenticare un pomeriggio del genere ed emozioni così forti? Perugia-Juve non finiva mai, ve lo giuro. Lacrime e gioia». Venticinque anni dopo la conquista dello scudetto, il secondo per la Lazio, datato 14 maggio 2000, Roberto Mancini ricostruisce il viaggio nel fantastico mondo del successo che aveva già percorso a Genova, con la Samp. «Non è da tutti vincere due campionati con squadre che non facevano ancora parte della storia del calcio italiano. Penso di aver conquistato un palcoscenico unico, sono uno dei pochi».
Mancini, torniamo indietro nel tempo: lei stava scegliendo l’Inter.
«Sì, consideravo conclusa la mia esperienza con la Samp, a cui avevo dedicato quasi tutta la mia vita. Parlai di nuovo con il presidente Moratti, come era accaduto anche qualche anno prima. Ma era destino che io all’Inter sarei andato solo come allenatore».
Non vi siete messi d’accordo: problemi economici?
«No, devo dire che Moratti si è preso del tempo e in quel momento arrivò la telefonata di un altro presidente, Sergio Cragnotti».
Chiusura immediata, allora.
«Più o meno, come sarebbe accaduto negli anni successivi: quando il presidente decideva un acquisto, procedeva come un lampo. Ricordo il caso Stankovic: Dejan era destinato alla Roma e Cragnotti lo prese in un solo pomeriggio».
La Lazio invece dell’Inter: ha avuto coraggio.
«Mi è bastato un colloquio per capire quali sarebbero state le prospettive. E poi sapevo che sarebbe arrivato Eriksson, con cui avevo condiviso cinque anni splendidi alla Samp. Ho firmato prima di Sven, se ricordo bene».
L’arrivo dello svedese è stato decisivo.
«Tra me e lui si era creato un legame importante alla Samp, qualcosa di esclusivo e di irripetibile. Mi colpì il modo in cui era riuscito a ricreare la squadra dopo la fine di un ciclo, la cessione di Vialli e una finale di Coppa dei Campioni persa sul filo di lana».
Eriksson come Boskov, più o meno.
«Avevano idee diverse, anche di gioco, ma in comune una caratteristica che nel nostro mondo non è facile trovare: erano persone perbene».
E così inizio la vostra avventura alla Lazio.
«Esperienza fantastica, che avrebbe potuto produrre anche più successi. Un solo scudetto perché l’anno prima ci sfuggì nel finale, pochi risultati in Champions, forse per mancanza di esperienza. Ma in tre anni abbiamo comunque scritto la storia della Lazio anche con la Coppa delle Coppe e la Supercoppa europea».
Eriksson, ad un certo punto, non sapeva più chi scegliere.
«Sembra un paradosso ma è andata davvero così. La Lazio aveva due squadre fortissime, quasi equivalenti. E per Sven non era facile scegliere, all’epoca c’erano tre sostituzioni e non cinque. Si girava verso la panchina e si capiva che qualche imbarazzo c’era. È stato un grandissimo allenatore e un uomo speciale, forse solo lui avrebbe potuto gestire una situazione del genere».
Chissà quante liti nello spogliatoio: si parlava di clan, uno della Samp e uno degli argentini.
«No, vi garantisco che il gruppo era forte ed era pieno di grandi personalità. Certo, i giocatori esclusi ci rimanevano male, ma sapete perché nessuno si arrabbiava con Eriksson?».
No, ce lo riveli lei.
«Perché tutti sapevamo che era una persona perbene, educata, che doveva sopportare il peso delle scelte. Tutti accettavano le sue decisioni senza creargli difficoltà».
Il caso più difficile fu quello che coinvolse lei e Signori.
«Beppe icona della Lazio, poi ha fatto la storia anche a Bologna. Quell’anno non stava bene ma era un fuoriclasse del gol».
Il secondo anno arrivò anche Mihajlovic.
«Sinisa, quanto mi manca. Una personalità devastante, come quella di tanti altri giocatori della Lazio di Cragnotti a cui va dato il merito ancora oggi di aver creato una delle squadre più forti di tutti i tempi. Noi potevamo perdere solo in una giornata storta, in una partita giocata male. Mai perche ci mancavano carattere e personalità».
Eriksson garantì al presidente che con con Mihajlovic e Veron gli avrebbe portato lo scudetto.
«Sì, è andata così. E Sven ha mantenuto la promessa. Sinisa per me è stato uno dei più grandi giocatori del mondo, sicuramente il più forte della storia sui calci da fermo: gli angoli diventavano occasioni per la squadra, le punizioni si trasformavano in gol. Ma quale Roberto Carlos, lui è stato di un altro pianeta».
Ma ci fu un altro giocatore decisivo, nella Lazio dello scudetto.
«So a chi si riferisce con questa domanda. Sì, a noi mancava un Simeone».
Ci racconti, per favore.
«Mi sono ritrovato accanto a Cragnotti quando stava trattando con l’Inter la cessione di Vieri, che ci aveva portato quasi allo scudetto nel ’99 con un girone di ritorno fantastico. Moratti pretendeva Bobo a tutti i costi e mise nel conto anche il cartellino di Paulo Sousa, un grande giocatore. Ma io dissi al presidente: si faccia dare Simeone, a noi manca uno con le sue doti».
E infatti segnò il gol decisivo contro la Juve, quando iniziò la rincorsa da meno 9.
«Diego era cattivo, dal punto di vista agonistico, segnava, trascinava, lottava. In mezzo a tanta classe, eccome se serviva questo argentino con il fuoco dentro».
Un altro consiglio a Cragnotti?
«L’ho citato all’inizio: Dejan Stankovic. Seguivo tutti i giocatori, mi interessavo agli altri campionati e lo segnalai a Cragnotti. Ci mise un attimo a prenderlo, al presidente, a Governato, a Zoff vanno dato i meriti per la costruzione della Lazio più forte di tutti i tempi»
Che stava perdendo il secondo scudetto di fila.
«Il primo ci è sfuggito dopo lo scontro diretto con il Milan all’Olimpico. Quel gol d Vieri annullato all’epoca non c’era il Var. La rimonta rossonera ci ha tagliato fuori».
A parti inverse lo avete soffiato alla Juve nel Duemila.
«Dopo il ko di Verona eravamo finiti a meno 9, eppure vi giuro ancora oggi che nessuno di noi ha mollato. Era dura, ovvio, ma ci abbiamo sempre creduto soprattutto perché c’era lo scontro diretto a Torino».
Ultima giornata da fantascienza: il gol di Calori, l’alluvione di Perugia.
«Si vede che era destino, ma quello scudetto ce lo siamo meritati, lo abbiamo costruito nel tempo. Venticinque anni dopo, la storia siamo noi».
È stata l’emozione più grande della sua carriera?
«Chiedo perdono ai laziali e ai sampdoriani: l’abbraccio con Vialli a Wembley non si può battere».