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 2025  maggio 10 Sabato calendario

"Una sceneggiatrice la vedi dal talento, dall’altruismo e dalla fantasia: vi racconto mia madre"

Mia madre Suso Cecchi d’Amico firmò, il più delle volte con altri e solo molto raramente da sola, più di centoventi sceneggiature cinematografiche durante più di sei decenni di attività. Però in vita non diede alle stampe quasi nulla. Affettava di non considerarsi una vera scrittrice, anche se con la prosa pubblicata aveva avuto qualche familiarità da prima di dedicarsi alle parole per lo schermo, traducendo qualche romanzo classico e di qualche testo teatrale. Ai suoi inizi la sceneggiatura non si chiamava ancora così, tanto vero che lei e altri come lei persero anni di contributi perché la legge li aveva confusi con gli scenografi. Lei ci era arrivata quasi per caso, quando come tanti si arrabattava per tirare avanti nella Roma disastrata dell’immediato dopoguerra. Degli amici la coinvolsero in una piccola impresa collettiva che fu seguita da altre consimili – erano lavori da farsi in gruppo, con elementi che potevano cambiare in corso d’opera. In questi gruppi lei era, quasi sempre, l’unica donna, magari chiamata per dar corpo a un personaggio femminile della trama; una diva sospettosa e priva di protettori come Anna Magnani prese presto a fidarsi di lei. Abitando con la sua famiglia in un appartamento tradizionale, poteva anche fornire un salotto per le riunioni di sceneggiatura con colleghi che volevano evadere dalle mogli o che trovavano scomodo il bar. Terzo e ultimo punto a suo favore, la sua esperienza passata di ex impiegata. Prima di sposarsi era stata segretaria in un ministero, quindi aveva dimestichezza con la macchina da scrivere. Era una brava dattilografa, e se ne avvantaggiarono anche compagni di lavoro meno portati.
Ma il fattore decisivo della sua durata fu l’aver capito, da subito, che l’autore di un film è il regista, e che compito dello sceneggiatore è aiutare il regista a fare il film che costui ha in mente. Non per nulla negli anni le furono affidati parecchi debuttanti poi diventati famosi. Questo non vuole dire per lo sceneggiatore rinunciare alla propria personalità, bensì metterla al servizio del progetto comune; progetto che può anche partire da un suo suggerimento, avanzato più o meno sommessamente. Ovviamente scoprì anche di avere talento, fantasia, e di saper dare una coerenza architettonica alle storie. Possedeva, infine, una curiosità per il prossimo che non le venne mai meno. Trovava interessanti le persone, le ascoltava volentieri, e con lei tutti si aprivano. Era al corrente di un numero incalcolabile di segreti, che non rivelò mai a nessuno.
Convinta dunque che una sceneggiatura non è come un testo teatrale, nato dalla fantasia di un Drammaturgo (d maiuscola), testo che poi gli esecutori sono chiamati a non tradire, non incoraggiò mai chi le proponeva di ricavare dai suoi copioni libri per chi ha visto il film. La sceneggiatura si butta via, diceva: il film finito è diverso dal dattiloscritto che ne era alla base, spesso molto diverso, per infinite ragioni (attori cambiati, lampi di genio sul set, improvvisi tagli al budget...). Così forse l’impresa di ricavare un volume dai suoi lavori può sembrare utopistica. Lei non l’avrebbe incoraggiata. Tuttavia la tenacia dei curatori Francesco Piccolo e mia sorella Caterina d’Amico ha riunito in questo sontuoso Millennio Einaudi una campionatura tutt’altro che scontata di quello che le passò tra le mani, talvolta venendo realizzato, e talvolta no, anche scoprendo inediti. Figurano lavori a beneficio di ben sette registi, Zampa, Visconti, Blasetti, Castellani, Rosi, Monicelli, Mikchalkov. Non sono certo tutti quelli con cui lei lavorò, mai costruttivamente diversi tra loro, e ogni pezzo dell’antologia ha un motivo che ne giustifica la scelta. Le sceneggiature complete presenti nella raccolta sono lì pour cause. Quella di Salvatore Giuliano, per esempio, documenta le variazioni tra il copione, basato su ricerche sul campo, e il girato, dove contò molto l’impiego di attori non professionisti presi tra gente del posto. Quella di Nella città l’inferno, vicenda tratta da un dimenticato libro semidocumentario, può far riflettere su come la realistica ambientazione in un carcere femminile dovette tener presenti le imposizioni di una censura molto attenta a difendere le istituzioni e a scoraggiare il turpiloquio. Di alcuni film fortunati si danno qui i soggetti che li fecero nascere, vedi quello di Peccato che sia una canaglia, sviluppato da un racconto di Moravia e che varò la coppia Mastroianni-Loren, destinata a diventare mitica; e vedi il trattamento che cominciò a trasformare uno spunto abbastanza diverso nel concertato muliebre di Speriamo che sia femmina, con sgomento iniziale di quasi tutti i produttori. Per Rocco e i suoi fratelli fu messo a punto dietro incarico di Visconti un ritratto del personaggio di Nadia, onde mettere a fuoco una presenza femminile di cui gli sceneggiatori, tutti maschi, dovevano tener conto. C’è una sceneggiatura completa e inedita, Ti trovo un po’ pallida, dal racconto di Fruttero e Lucentini, redatta appositamente per un’altra grande amica, Silvana Mangano, che purtroppo non fece in tempo a interpretarla. E ci sono due soggetti originali per film mai realizzati, due storie che Suso inventò e scrisse soprattutto perché interessavano a lei. Forse era una scrittrice, dopotutto. —