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 2025  maggio 11 Domenica calendario

Il collasso degli ospedali In sei reparti su dieci non ci sono posti liberi

Letti occupati ben oltre la capienza tanto che la metà dei reparti è in overbooking, personale allo stremo e pazienti sempre più fragili, spesso costretti a restare in corsia per giorni solo perché il territorio non riesce a prendersene cura. È la fotografia che emerge dalla nuova indagine Fadoi (Federazione dei medici internisti ospedalieri), condotta su 216 reparti di medicina interna in tutta Italia, quelli dove viene assistito il 40% dei ricoverati, sovente anziani con più patologie.
In oltre la metà dei reparti (58%) si supera regolarmente il 100% di occupazione dei posti letto. Non è raro che i pazienti vengano assistiti su una barella in corridoio, con un separé a garantire una parvenza di privacy. Non va meglio sul fronte del personale: l’85,6% delle unità operative denuncia carenze croniche di medici e infermieri. Un quadro che diventa ancora più preoccupante se si considera che in questi reparti transitano quasi la metà dei ricoverati ospedalieri, in gran parte anziani, cronici, fragili, con bisogni assistenziali complessi.
Eppure, circa un terzo dei ricoveri potrebbe essere evitato con una presa in carico territoriale più efficace. Un dato che pesa, se si considera che i reparti continuano a reggere sulle spalle di operatori sempre più in affanno e con strumenti limitati. Per il 32,8% dei reparti, tra il 10 e il 20% dei posti letto sarebbero liberi con un territorio più reattivo; per il 37% si sale al 21-30%, mentre quasi il 19% stima di poter evitare addirittura tra il 31 e il 40% dei ricoveri.
A mancare è tutto l’ecosistema dell’assistenza di prossimità: cure domiciliari, Rsa, reparti di post-acuzie. Ma anche i medici di famiglia, sempre più soli e sovraccarichi, schiacciati da un carico burocratico che sottrae tempo ai pazienti. Situazione tanto più grave se poi non si lavora in team con infermieri e specialisti e se gli studi restano aperti in media 14 ore a settimana come oggi avviene. La riforma della Sanità territoriale, con Case e Ospedali di comunità pur prevista dal Pnrr, stenta a decollare, proprio perché i medici fanno resistenza ad andarci a lavorare per un numero congruo di ore. E così il sistema si inceppa proprio lì dove dovrebbe funzionare meglio: nella gestione dei malati cronici fuori dall’ospedale.
Non va meglio sul fronte della prevenzione. L’Italia investe meno di tutti in Europa per la salute preventiva. I risultati si vedono: stili di vita scorretti, scarsa adesione agli screening e basse coperture vaccinali fanno sì che, in media, un quarto dei pazienti arrivi in ospedale per malattie che si sarebbero potute evitare. È un bollettino di guerra che parla di fragilità ignorate, diagnosi tardive e medicina di iniziativa ancora in larga parte teorica.
Uno spiraglio arriva dalla fase post-dimissione: nel 44% dei casi viene attivata l’assistenza domiciliare integrata, il 27% dei pazienti viene accolto in Rsa, il 21% in altre strutture intermedie. Solo il 7,9% torna a casa senza alcun tipo di presa in carico. Ma è un dato che non bilancia le inefficienze a monte.
Sul tavolo ci sono i due miliardi del Pnrr destinati alle nuove Case e Ospedali di Comunità, da realizzare entro giugno 2026. La speranza è che queste strutture possano finalmente sgravare i reparti da pazienti impropri e rafforzare il filtro tra ospedale e territorio. Ma i medici restano scettici: per oltre il 72% degli internisti queste realtà potrebbero funzionare, ma solo se ben realizzate e ben connesse con gli ospedali. Resta il nodo del personale: senza medici e infermieri, nessuna riforma può camminare e i reparti di medicina interna (ancora classificati come «a bassa intensità di cura») hanno una più scarsa dotazione tanto degli uni che degli altri. Una distorsione che il ministro della Salute, Orazio Schillaci, intervenendo al Congresso Fadoi di Torino si è impegnato a sanare con il prossimo decreto ministeriale sugli standard ospedalieri.
Il rischio è che tutto si trasformi in una nuova ondata di burocrazia, scollegata dai bisogni reali. Come avverte Dario Manfellotto, presidente della Fondazione Fadoi, «manca una vera regia che coordini le nuove strutture con gli ospedali. Le centrali territoriali che alcune Regioni stanno attivando rischiano solo di aggiungere un ulteriore strato burocratico».
E mentre si discute di riforme, il tempo dedicato alla ricerca evapora. Il 48,6% degli internisti non riesce più a trovare spazio per l’attività scientifica; il 43% la pratica molto meno di quanto vorrebbe. Eppure è proprio nei reparti di Medicina interna, dove si trattano pazienti complessi e multispecialistici, che la ricerca clinica trova il suo terreno più fertile. «Fare ricerca migliora anche la qualità dell’assistenza», ricorda Francesco Dentali, presidente Fadoi. «Ma serve tempo, personale e visione. Tutte cose che, oggi, mancano».