corriere.it, 11 maggio 2025
La globalizzazione è morta e il deficit Usa è mostruoso (e Trump vuole salvarsi con una criptovaluta)
Per capire quello che sta accadendo conviene prendere in prestito un grafico di recente pubblicato dal Financial Times a corredo di un testo dell’editorialista Martin Wolf (nella foto in alto). Il titolo è eloquente: «Il vecchio ordine globale è morto» (puoi leggerlo qui). La questione è quale altro ordine globale stiamo costruendo in sostituzione dell’attuale e quali ragioni (e torti) hanno gli Stati Uniti nel voler ri-bilanciare gli ultimi trent’anni di multilateralismo, di progresso economico e tecnologico. Nel percorso (complicato) di risposta ci avvaliamo del supporto di Carlo Altomonte, professore associato di Economics all’università Bocconi (puoi leggere qui il suo profilo accademico), già consigliere di Mario Draghi nel suo periodo a Palazzo Chigi.
Il deficit Usa è triplicato e vale un quarto del Pil mondiale
Altomonte segnala che gli Stati Uniti negli ultimi dieci anni hanno visto aumentare la posizione finanziaria netta, passando da un deficit di 7 a circa 21 trilioni di dollari. Si tratta ormai di un quarto del Pil mondiale.
Questa esponenziale ascesa del debito nei confronti del resto del mondo è finita sotto la lente di varie amministrazioni e ora i nodi sono venuti al pettine: «Gli Usa stanno cercando di cambiare questo (per loro) cattivo equilibrio commerciale. Per farlo sanno che il loro ruolo è ancora profondamente centrale: per l’egemonia del dollaro che li pone come il perno del sistema dei pagamenti globale. Perché sono soprattutto il Paese leader della ricerca tecnologica, fulcro innovatore globale. Dunque, il resto del mondo continua ad esportare capitali verso gli Stati Uniti: un appetito che non si è mai fermato e questo concede ancora una finestra di opportunità», spiega Altomonte.
L’equilibrio del mondo come lo conoscevamo
Da un lato abbiamo gli Stati Uniti come partito della domanda globale, basato su consumi interni, disavanzi commerciali strutturali e attrazione di capitale estero; dall’altro Cina, Germania e altri paesi «mercantilisti», legati a un modello fondato sul contenimento della domanda interna, sullo sviluppo dell’export e sull’accumulazione di surplus commerciale. La propensione al consumo negli Stati Uniti è stabilmente attorno al 67–68% del Pil, contro meno del 55% in Germania e circa il 38% in Cina. «Il sistema statunitense sostiene la domanda globale – anche a debito. I modelli tedesco e cinese, invece, si reggono su salari contenuti, risparmio forzoso e surplus strutturali: sono economie esportatrici non perché producono di più, ma perché consumano meno», ha appena scritto sul Sole 24 Ore Giovanni Di Corato, amministratore delegato Amundi RE Italia SGR.
La distorta bilancia dei pagamenti mondiale
Questa dinamica però crea un equilibrio distorto nella bilancia dei pagamenti. Perché, segnala Altomonte, «quanto più esportiamo capitali verso gli Stati Uniti, più aumenta il loro deficit commerciale nei confronti del mondo. Questo deficit non è più solo consumo privato, storicamente guidato dal loro modello iper-consumista. Ma è ormai diventato consumo (deficit) pubblico. Di fatto gli Stati Uniti assorbono la domanda globale, che sia da consumatore privato o pubblico, e l’effetto diventa politicamente complicato per la Casa Bianca».
La classe media è schiacciata
Per quale motivo? Perché fa aumentare il costo del debito stesso alzando gli interessi (e i rendimenti) per chi sottoscrive bond americani dato il rischio crescente di default e comprime i margini di manovra della spesa pubblica. Ma ampli flussi di finanziamento comprimono soprattutto il benessere della classe media, producendo sempre più disuguaglianze sociali. Chi detiene azioni in Borsa ha visto aumentare le quotazioni, ma la classe media è schiacciata dall’aumento dei prezzi e dai salari che non vedono lo stesso aumento proporzionale. E il governo non ha messo in campo sufficienti sussidi per frenare questo smottamento creato dall’inflazione da beni energetici di questi ultimi anni.
La base industriale si sta erodendo
Da qui discende la terza conseguenza negativa: «Siccome gli Stati Uniti sono un Paese consumatore hanno bisogno anche di produrre per non veder venir meno la propria sovranità strategica. Peccato che negli ultimi anni si stia erodendo la loro base industriale. Il Pil del manifatturiero Usa è passato dal 15% a meno del 10%. Sta venendo meno la scala minima efficiente per fare concorrenza alla Cina per alcune produzioni strategiche come i microchip», spiega Altomonte. Da qui la volontà di riportare negli Usa alcune produzioni considerate fondamentali.
Quale soluzione cercare
Cina ed Europa vendono agli americani ma non si curano del fatto che ciò produce un alto deficit per gli Stati Uniti. Dunque, come ri-bilanciare questa relazione che suscita malcontento nell’amministrazione Trump? Qui si aprono diverse strade, tra cui quella dei dazi scelta dal presidente americano. «Ma non porta molto lontano. C’è una forte resistenza delle catene globali del valore che sono molto radicate – dice Altomonte -. Significa che è difficile smontarle senza rischiare di avere gli scaffali vuoti nei supermercati». Inoltre, aggiunge il professore, «la strada delle tariffe è scavalcabile dal resto del mondo. Perché l’87% del commercio globale non riguarda gli Stati Uniti, che determinano solo l’altro 13%».
Il legame tra importazioni e ricavi
A ciò si aggiunga che se le importazioni negli Stati Uniti scendono per colpa delle tariffe così pesanti scenderanno anche i ricavi sul lungo termine, segnala Altomonte. E per riportare alcune produzioni negli Usa è necessario trovare competenze interne, una forza lavoro adeguata e qualificata, ma non giova l’approccio molto restrittivo sull’immigrazione. Da qui la recente crisi finanziaria negli Usa assimilabile a quella di un mercato emergente. Con un crollo del mercato azionario e l’aumento contestuale del tasso di interesse sui titoli di Stato. Un’apparente contraddizione che ha segnalato però come il mercato abbia registrato una pesante crisi di fiducia nei confronti degli Stati Uniti e portato un afflusso di capitali verso l’estero.
La strada della svalutazione del dollaro
«L’altra strada per una modifica dell’equilibrio di bilancia dei pagamenti è quella di svalutare il dollaro, evitando di perdere l’egemonia della moneta globale, ma mantenendo un minimo di presa sul sistema», segnala Altomonte. Sono due forze contrapposte, spiega l’economista della Bocconi: «Se lo svaluti rischi di perdere l’egemonia, ma se invece si creasse una valuta parallela al dollaro fisico, ma a questo legata tramite un adeguato collaterale, il resto del mondo potrebbe usarla senza che la domanda di asset americani venga meno. Da qui il progetto di promuovere le ‘stablecoin’, criptovalute agganciata al biglietto verde con cui sono convertibili, con un sistema analogo a quello in vigore per gli accordi di Bretton Woods che hanno tenuto fino agli anni ’70. Ma cosa succede ad un certo punto se si perde la fiducia nella stablecoin e i creditori chiedono la convertibilità in dollari fisici?», si chiede Altomonte.
Come funziona una stablecoin
Gli stablecoin hanno un valore stabile agganciato praticamente sempre al dollaro, non sottoposta alla fluttazione come il Bitcoin. L’emittente di uno stablecoin può cambiarlo in dollari in qualunque momento alla pari – uno a uno – se l’ha venduto alla pari (il meccanismo l’ha spiegato qui Federico Fubini). Come fa? Con i fondi che incassa vendendovi stablecoin, l’emittente di questa criptovaluta compra quasi solo titoli di Stato americani, cioè debito pubblico degli Stati Uniti; dunque, si comporta in modo tale da disporre di un controvalore più o meno stabile a sostegno della criptovaluta che ha emesso.
Analogo ad uno strumento di pagamento
È uno strumento di pagamento simile a una carta di credito, utilizzabile dallo smartphone, ma non ha nessuno dei costi di una carta o addirittura offre una piccola rendita se l’emittente del vostro stablecoin condivide con voi parte dei profitti che ottiene investendo le sue riserve in titoli di Stato americani. Come una carta di credito, è utilizzabile per pagare un acquisto al dettaglio in gran parte del mondo. Società di carte di credito come Visa si preparano ad usare gli stablecoin: il servizio di pagamento fra cliente e venditore porta il vecchio nome – Visa – ma tutta la rete dietro è diversa e taglia fuori completamente le banche tradizionali.
La possibile instabilità
La Fed garantisce in generale il potere d’acquisto del dollaro fisico, ma non è detto che lo faccia per le stablecoin, soprattutto se queste sono prevalentemente utilizzate all’estero. «A quel punto l’onere di aggiustamento in caso di crisi di fiducia della stablecoin ricadrebbe sui governi dei paesi in cui sono utilizzati, che a quel punto dovrebbero salvare i loro sistemi finanziari privi di dollari fisici», dice Altomonte. Quel che è certo è che la guerra dei dazi è solo l’esordio della partita.