corriere.it, 11 maggio 2025
Jacopo Fo: «Mia madre Franca Rame invece delle favole mi raccontava di disoccupati. Quando fu rapita mi avvicinai alla lotta armata»
Arriva in piazza Dante con il sorriso da guitto e un giubbotto di jeans decorato da lui. Jacopo Fo a 70 anni è perfettamente a suo agio in questa città che l’ha praticamente adottato. «Tra vivere nei boschi come ho fatto negli ultimi quarantacinque anni e stare in una città, preferisco sempre i boschi ma se devo scegliere, scelgo Napoli: è la città più vivibile d’Italia, c’è un clima di rilassatezza e di tolleranza che altrove non si trova», dice.
A Napoli l’artista, attore e regista, da sempre impegnato per i diritti umani come i genitori, Franca Rame e il premio Nobel Dario Fo, ora è cittadino part time: la terza moglie, la psicoterapeuta Ilaria Fontana, lavora e vive qui, con il loro piccolo Michelangelo di pochi mesi, terzogenito di Fo dopo Mattea e Jaele, avute dai matrimoni precedenti. La primogenita gestisce Alcatraz, la tenuta tra le colline umbre dove la famiglia Fo da sempre ospita attività sociali (l’ultima è per donne vittime di violenza) mentre la seconda fa il mestiere del padre e dei nonni: l’attrice. Jacopo a Napoli porta il suo «yoga demenziale» una tecnica per combattere paure e potenziare le proprie abilità che studia e insegna da decenni. Ma fa mille altre cose, tra cui anche inventare nuovi progetti sociali, scrivere libri, recitare.
Jacopo a Napoli sta per debuttare al Bellini Morte accidentale di un anarchico, scritto da suo padre, e lei sarà tra il pubblico con tutta la sua famiglia. La satira politica ha fatto parte della sua educazione?
«Ricordo una sera, avevo 9 anni e mia madre mi mise a letto ma invece di raccontarmi storie meravigliose, a un certo punto disse la parola: pensionati. Io non sapevo cosa volesse dire e così lei iniziò a spiegarmi che non ce la facevano ad arrivare a fine mese. E poi prese a parlarmi dei disoccupati. Più andava avanti nel descrivere il mondo, più non riuscivo ad addormentarmi. Fu così che diventai comunista in una notte».
Che cosa faceva, da bambino comunista?
«A 10 anni vendevo l’Unità tutte le mattine sulla spiaggia di Cesenatico, quando eravamo in vacanza, indossando una maglietta con su scritto “Io sto con i vietcong”. C’era chi mi diceva: ma va in Russia. A mia insaputa, mamma aveva preso accordi con tutti i bagnini e messo su una rete di protezione, così ero al sicuro. Però ho avuto lo stesso l’infanzia rovinata: sapevo tutto sul Vietnam, sulla storia della Cina ma niente di calcio e degli argomenti che appassionavano gli altri bambini».
E la Festa della mamma?
«A casa nostra le feste non esistevano. Si festeggiava solo il Natale però i regali li portava Gesù Bambino. Niente Babbo Natale e neppure la Befana. I miei erano sempre in tournée o a Genova o a Torino, dove io li raggiungevo e si faceva un grande pranzo con tutta la compagnia, attori e tecnici erano come i parenti e alla fine ci scambiavamo pure i regali. Il vero dramma però non era questo. Fu quando scoprii che esisteva l’onomastico e che gli altri bambini ce l’avevano».
Che cosa successe?
«Lo dissi a mio padre e mi rispose che io non lo avevo perché, quando ero nella pancia della mamma, lui si era avvicinato e mi aveva chiesto: “Ehi bambino, quale nome vuoi” e io avevo risposto: “Jacopo”. Quindi se volevo l’onomastico, dovevo pensarci prima, secondo lui».
Franca Rame che mamma era?
«Una madre straordinaria, che prese con sé anche due mie cugine, siamo cresciuti in tre. Quando c’era, c’era totalmente, con partecipazione, ascolto, presenza emotiva. Però poi per cinque, sei mesi all’anno era via per lavoro, e questo alternarsi tra una presenza totale e una assenza fisica me lo sono portato dentro, da grande, nel mio rapporto con le donne. Ma la cattiveria peggiore dei miei genitori fu inventarsi un altro fratello».
Un fratello immaginario?
«Quando andavo a scuola protestavo sempre perché la mattina loro dormivano, rientravano tardi dal teatro e non potevo salutarli. Allora mi dissero che non potevo entrare nella loro stanza perché avevano un altro figlio, Pierino, che stava lì con loro. Una roba, oggi, da Telefono Azzurro. Però sapevano ascoltarmi e chiedevano il mio parere sin da quando ero piccolo. Mi facevano ascoltare la lettura delle commedie e se mi distraevo allora voleva dire che la scena era debole».
Che cosa significava essere artisti impegnati politicamente?
«Mia madre considerava un dovere stare dalla parte delle persone che avevano avuto meno fortuna di lei. Un giorno lesse di un disoccupato che non mangiava da tre giorni, andò al supermercato, caricò l’auto di cibo, lasciò un assegno e il numero di telefono di una persona che poteva trovargli un lavoro. Mi ha sempre detto: “Essere comunista non è una cosa che uno decide ma una cosa che uno deve dimostrare”. Ricordo anche che salvò un ministro democristiano da uno scandalo».
Quale ministro?
«Non ci ha mai voluto dire il nome. Per caso nel bagno a una festa con personaggi del teatro e del cinema, sentì due modelle parlare di una loro amica che era stata ingaggiata per andare a Città del Messico e adescare questo ministro nella hall dell’hotel, portarlo in camera, farci del sesso e farsi riprendere da telecamere nascoste. Mamma lo chiamò e lo mise in guardia. Per anni abbiamo ricevuto a Natale un cesto anonimo di dolci. Questo faceva di mia madre una persona che non era incasellabile: fosse di destra o di sinistra, lei combatteva contro tutte le ingiustizie. E per il suo lavoro accanto ai detenuti fu punita dai servizi segreti: ormai si sa che quando fu rapita, torturata e stuprata, alcuni alti ufficiali dei carabinieri brindarono prima che noi denunciassimo il rapimento».
Lei come reagì?
«Andai fuori di testa. A un certo punto mi avvicinai anche a un gruppo di lotta armata e rischiai di essere indagato per un attentato incendiario che non era mai stato commesso. Quando capii che erano dei folli, me ne andai portando via con me un centinaio di persone. Avevo quasi 18 anni, fu un momento terribile della mia vita, anche l’unica volta in cui avrei voluto dare un pugno a mio padre».
Perché?
«Quando mia madre tornò a casa dopo il sequestro io restai con lei per ore fino a quando non si addormentò. Poi uscii dalla sua stanza, la nostra casa era piccola e piena di compagni, mio padre era lì in mezzo, mi guardava, era di pietra, non traspariva nessuna emozione. Il sottotesto era: siamo comunisti abbiamo messo in conto di essere colpiti, cancella le tue emozioni».
Ma non ci dirà che Franca Rame e Dario Fo nella vita quotidiana erano tristi.
«No, anzi, i contrasti familiari venivano spesso affrontati con una risata, ma accanto al gusto di ridere c’era anche il senso di una responsabilità sociale enorme».
Si sente ancora il figlio di Franca Rame e Dario Fo?
«Certo, è un legame inscindibile, e sono ben lieto di essere nato in una famiglia come la mia, di aver sviluppato la scuola di teatro di mia madre e mio padre. Tutto quello che ho fatto come attore e regista lo devo a loro. Anche se questo privilegio a volte è stato è complicato».
Suo padre vinse il Nobel, di quei soldi cosa avete fatto?
«Facemmo una riunione di famiglia e decidemmo di costituire una fondazione che si occupasse di persone con disabilità. Mamma organizzò pure un gruppo di “disabili d’esame” che controllava se chi chiedeva gli aiuti era effettivamente bisognoso. Devolvemmo l’intero ammontare del premio: 1 miliardo e 650 milioni di lire».