Corriere della Sera, 11 maggio 2025
Con il paròn in via Solferino
«Torni da Napoli? Conosci adesso la lingua dei gesti? Guarda e ascolta: raccolgo a tulipano le dita della mano destra, altalenando quel fiore nella ipotiposi digito-interrogativa… Che significa?».
«Facile: cosa vuoi?».
«Certo, ma di chi è la frase?».
Non ne ho idea, sembra la musica dodecafonica: una tortura. Chiunque sia l’autore, è un testo troppo barocco, irritante… Non da Terza Pagina.
«Invece lo pubblicherei subito. L’ha scritto Gadda nel Pasticciaccio brutto de via Merulana. Dunque, sei promosso per la mimica e bocciato in letteratura».
Per sgombrare i momenti di noia nel lavoro Giulio Nascimbeni a volte proponeva indovinelli come questo, che evocava la prosa fitta di neologismi, tecnicismi, gerghi, dialetti grazie alla quale Carlo Emilio Gadda aveva scosso i canoni della narrativa novecentesca. Di citazioni così il capo della redazione Cultura del «Corriere della Sera» – una vera autorità, dato il ruolo – poteva concedersene infinite, perché era un uomo curiosissimo e dalla memoria prensile, che andava ben oltre la sua formazione classica. A estasiarlo era l’alchimia delle parole, quelle fuori corso e quelle appena coniate. Lo ripeteva sempre: «Il libro che sfoglio quotidianamente è il vocabolario». E infatti tra gli scrittori che più lo intrigavano c’erano Pasolini, Meneghello, Zanzotto, Manganelli, Arbasino, sperimentatori di nuovi linguaggi.
Erano chiamati «l’argenteria» del giornale. Romanzieri, poeti e saggisti messi sotto contratto da Nascimbeni con tanti altri intellettuali di prestigio. Grandi personalità che, assieme a inviati speciali, corrispondenti ed editorialisti, avevano trasformato la sua redazione in un’«officina» di studio, analisi e ricerca, nella quale si perfezionava una formula progressiva di giornalismo culturale, in cui tutto si teneva. Vale a dire tradizione (ma non troppo veneranda) e innovazione, alto e basso (cioè il colto diluito in popolare), leggerezza (purché non evanescente) e rigore (da intendere come precisione). Ecco l’identità e lo stile della leggendaria Terza Pagina del «Corriere» come la intendeva lui.
L’«argenteria»
I rebus letterari, le storie picaresche della Bassa e i battibecchi calcistici erano siparietti nei quali si lanciava di rado. E solo con gli intimi, ai quali era permesso chiamarlo «paròn», civettando sull’appellativo che devotamente gli rivolgeva la domestica. Non si andava oltre brevi battute, con lui, perché il suo profilo alto e massiccio e il volto serio pur nella bonarietà degli occhi incutevano soggezione al pari dell’atmosfera della stanza in cui regnava, e che era permeata da un fervore concentrato e silenzioso. Un mondo a parte, nel quale si esitava ad affacciarsi. Bussavano i collaboratori e pochi intrusi. Per esempio, Giuseppe Borgato, fattorino della direzione, divisa blu con le CS d’argento sull’occhiello della giacca, incaricato di portare «ambasciate» dal piano nobile.
Il messaggio più inatteso gli fu recapitato a casa nel 1989, quand’era in pensione già da un po’. Una lettera con la proposta di riprendere servizio per rilanciare, in equilibrio con la contemporaneità (e per questo affiancato dallo spirito critico di Ranieri Polese), il settore cultura. Il riconoscimento che, nonostante l’età e l’arrivo delle nuove tecnologie, non lo consideravano un passatista attardato su modelli gloriosi ma al tramonto. Che si contava su di lui. Si rimise raggiante al proprio posto. Con una fedeltà ricambiata dall’ammirazione e dal rispetto dei colleghi, lasciando la sua impronta in via Solferino per quasi mezzo secolo.
Nascimbeni approda al «Corriere» nel 1960 dall’«Arena» di Verona, dove aveva esordito a 16 anni. Un exploit assai precoce, seguito dall’università, una parentesi come insegnante e un biennio come cronista di provincia. A convocarlo a Milano è Gaetano Afeltra, che guida l’edizione del pomeriggio, l’«Informazione». Tra i compagni di lavoro incrocia, purtroppo ancora per poco, Vergani, Montanelli, Buzzati, Cavallari… E c’è il redattore Montale, un mito per lui, che da ragazzo sognava di «fare il poeta» e non per caso dalla loro amicizia nascerà una straordinaria biografia del premio Nobel. Senza trascurare la presenza dei critici e scrittori che si avvicendano: Cecchi, Macchia, Contini, Citati, Moravia, Parise, Magris, Sciascia, Calvino, Tabucchi… I migliori sulla scena, un’intera letteratura.
Elenco al quale vanno aggiunti storici, filosofi, antropologi, scienziati reclutati da «paròn» Giulio secondo uno schema in progress nei lunghi anni in cui regge una sezione che intanto si arricchisce di supplementi e inserti. Pagine alle quali affida anche il frutto dei suoi personali enzimi creativi: recensioni, interviste, rievocazioni, commenti su politica, società, costume. Pezzi esemplari per saldezza d’impianto, cura di riferimenti e dettagli, nitidezza di scrittura e leggibilità (ed ecco la sua adorazione per Simenon, che non usava mai più di 2.000 parole nei suoi romanzi).
Una magistrale padronanza del mestiere che ne fa una sorta di Cassazione, al «Corriere». Lo raccontava Giampaolo Pansa: «Giulio era la persona cui tutti si rivolgevano per un consiglio, prima di cominciare un’inchiesta o di partire per un’intervista o per chiedergli di “passare’’ con mano sicura un articolo». Identico scrupolo dimostra coordinando il reportage di Magris dalla Mitteleuropa poi lievitato in Danubio, le invettive di Pasolini che saranno l’impalcatura degli Scritti corsari, i Sillabari di Parise, concepiti come una serie di elzeviri. E qui, sul ricettario dell’antico elzeviro Nascimbeni riflette tra malinconia e frustrazione, definendolo «un angolo per forzati della bellezza», ossia i «cultori della prosa d’arte, delle frasi levigate, degli arabeschi descrittivi». Registrando con lucidità che non si può riabilitarlo, perché «il tempo passa e l’Arcadia è finita».
Bisogna immaginarlo liceale a Sanguinetto (Verona), l’amato paese d’origine, mentre sfoglia il «Corriere» del 14 luglio 1940 e a pagina tre scopre un racconto di Buzzati, Il mantello, scorrendo il quale rafforza la scelta che aveva anticipato in un tema di quinta elementare, con stupore della maestra Itala Sganzerla: «Da grande voglio fare il giornalista del “Corriere”». Milano era insomma nel suo destino. A costo di abbandonare la Bassa (ma non il dialetto, con cui si esprimerà sempre), dove torna quando può. Mai abbastanza spesso, comunque, visto che all’impegno nel giornale si sommano le direzioni de «La Domenica del Corriere» e «Storia illustrata» e un paio di rubriche televisive, «Segnalibro» e «Tuttilibri», le prime del genere in Italia.
Ora, a diciassette anni dalla scomparsa un libro (La firma del paròn. Giulio Nascimbeni. Il signore della Terza Pagina) ne ricostruisce la parabola nello spirito di quel tempo, che non è così remoto. Per tanti aspetti è un manuale del buon giornalismo, costruito con sensibilità filologica da un professore delle sue terre, Stefano Vicentini, e pubblicato dall’editore Ianieri. Una selezione dei suoi testi migliori dispersi negli archivi e custoditi dalla moglie Carla e dal figlio Enrico, giornalista, poeta e cantautore, andatosene anch’egli qualche anno fa. Un libro che è un atto dovuto, di gratitudine.