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 2025  maggio 11 Domenica calendario

Intervista a Ermal Meta

«Ho voluto raccontare una storia scura, dai toni molto cupi, che assomiglia alla mente dell’essere umano quando è privo di cultura, quando il suo mondo è ristretto, quando il suo orizzonte è piccolo. Tutto avviene all’interno di un piccolo mondo in cui vivono personaggi che non conoscono altro che il retaggio nel quale sono cresciuti». Ermal Meta abbandona ancora una volta il tempo breve della canzone, tre minuti per raccontare una storia, per dedicarsi al tempo lungo del romanzo, 200 pagine per dipingere un ritratto del nostro tempo.
Dopo il successo dell’esordio Domani e per sempre, arriva il suo secondo romanzo, Le camelie invernali, che esce martedì 13 per La nave di Teseo di Elisabetta Sgarbi. La storia di due famiglie imprigionate in un conflitto che sembra scolpito in un destino ineluttabile. Due amici – Uksan e Samir – diciottenni in una terra senza futuro. Un’antica legge albanese (il Kanun) che esige la riparazione del delitto.
Il Kanun è il più importante codice di diritto consuetudinario albanese: «Se uccidi qualcuno, la famiglia della vittima ucciderà un membro della tua, per ristabilire il suo onore. La vendetta, però, non può colpire donne e bambini e non può consumarsi in casa. I maschi dovranno vivere rinchiusi finché la vendetta non sarà consumata». Una faida antica che non muore.
«Ancora oggi ci sono più di mille famiglie che vivono sotto il Kanun, che hanno i figli che vivono chiusi in casa, che non escono mai, per evitare di essere uccisi. La casa è l’unico posto inviolabile e loro vivono da prigionieri. Io sono andato via dall’Albania a 13 anni, però è un codice, un canone, che tutti conosciamo».
Perché ha voluto raccontare questa storia?
«Perché è una consuetudine più unica che rara ed è fortemente legata a una cultura di un certo tipo. Laddove non si accende una luce, l’oscurità prospera».
La giornalista che raccoglie la storia a un certo punto dice: «Sono troppo italiana in Albania e troppo albanese in Italia». È così anche per lei?
«Mi sono sentito così per tanto tempo e a volte mi sento ancora così. Io mi sento in patria in entrambi i Paesi, però sono le mie patrie forse a non riconoscermi. Ho costruito tutta la mia vita, tutti i miei interessi qua: sono italiano, ma forse sono un po’ meno italiano degli altri. E quando vado in Albania sono un po’ meno albanese degli altri: mi dicono che sembro un italiano che parla molto bene l’albanese. È una sensazione che puoi provare soltanto quando vai via dalla tua terra, quando vivi sospeso fra le radici e le foglie. Che è quello che succede a me da 30 anni».
Che infanzia è stata la sua?
«Disordinata. Un po’ per questioni familiari e un po’ perché nel momento in cui è caduto il regime è successo di tutto. Dopo 45 anni di dittatura – la più feroce d’Europa, la più feroce del blocco sovietico in assoluto – ogni minima regola è saltata: vigeva la legge del più forte».
Lei era un bambino, la percepiva la dittatura?
«Il regime è caduto quando io avevo tra i 9 e i 10 anni. Per noi bambini era difficile da percepire. Però avvertivo le cose che non potevi fare facilmente. Andavamo a fare la spesa con la tessera annonaria, non potevamo ascoltare la musica straniera... La storia che racconto si svolge a lume di candela, a luci basse. Uno dei ricordi più vivi che mi porto dentro è legato proprio alle serate a lume di candela passate a casa mia perché la corrente andava via sempre».
Il primo impatto, le prime sensazioni in Italia?
Sorride: «Troppe luci accese di notte. Era tutto troppo illuminato. Troppi lampioni».
Nel libro parla di un mondo patriarcale e violento. È anche un modo per esorcizzare in un certo senso la figura di suo padre e dei suoi abusi?
«Non lo so. Io non so manco più che faccia abbia, quindi non saprei proprio... Non me lo ricordo neanche più a dire la verità».
Il suo nuovo singolo si intitola «Ferma gli orologi». C’è un momento della sua vita professionale che avrebbe voluto fermare?
«Tutto il 2017, che è stato un anno pazzesco. È l’anno in cui il grande pubblico si è accorto della mia esistenza. Era quello che sognavo da bambino. Certo, è arrivato dopo un sacco di tempo, però ne è valsa la pena. Probabilmente se mi fosse successo a 20 anni non so che fine avrei fatto, forse sarei impazzito».
Il successo ha luci e ombre: può essere una gabbia?
«Avevo deciso da bambino che avrei voluto scrivere canzoni, che avrei voluto fare questa vita. Quindi non è mai una gabbia, ma piuttosto un privilegio. Certo non ne conoscevo l’insidia».
Qual è l’insidia principale?
«Non è tanto arrivare al successo, ma rimanerci. Quando sei in cima alla montagna ti gira la testa, c’è meno aria, lo spazio è poco. Quando la vetta è affollata c’è sempre qualcuno che cade giù».
L’immagine più bella dei suoi Sanremo?
«La telefonata di Franca Modugno dopo che ho cantato Amara terra mia: mi disse che era lì con suo figlio e pensavano che anche a Mimmo sarebbe piaciuta. È stata l’unica volta in cui ho pianto a causa della musica».
Con Fabrizio Moro avete vinto Sanremo, cosa vi lega?
«Lui ha sempre quest’aria un po’ incazzata, ma in realtà è un tenerone che non avete idea. Ci lega il fatto che siamo due persone che si sono guadagnate tutto, che si sono fatte veramente il mazzo, nessuno ci ha regalato niente».
Autotune sì o no?
«Per me autotune no: non lo uso e non è qualcosa che ho voglia di usare. Poi un conto è utilizzarlo come effetto, un altro per coprire i difetti. Ma sono anche del partito vivi e lascia vivere: chi sono io per impedire di usarlo?».
I testi violenti di certi rapper vanno considerati come fiction o ci devono essere dei paletti per arginare certe derive?
«L’arte e la musica hanno sempre raccontato la realtà. E quindi credo che i rapper di oggi raccontino quella che è la nostra realtà. Se qualcuno prende quelle canzoni, quelle parole, come insegnamento di vita, il problema è suo. Se basta una canzone per farti compiere certe azioni, evidentemente quel tipo di cultura ce l’hai nelle ossa: mettere la mordacchia all’arte non ha mai funzionato. Breaking Bad è un capolavoro, ma non mi verrebbe mai in mente di aprire una fabbrica di metanfetamine perché l’ho visto in una serie tv. Si può invece discutere su quanto certe canzoni siano una forma d’arte elevata o meno... Il problema comunque è che bisogna cambiare la realtà, non le canzoni».
Con la sua compagna state adottando due ragazze di 17 e 18 anni.
«Le abbiamo conosciute qualche anno fa quando ho partecipato a una raccolta fondi per aiutare una casa famiglia che si trova in Albania. Mi hanno colpito i loro racconti: quando le coppie andavano a visitare la casa famiglia o gli orfanatrofi in cui loro sono state, guardavano soltanto i ragazzi più piccoli. Le ragazze più grandi non le guardava mai nessuno. Quando mi hanno detto a noi non ci vuole nessuno, il cuore mi ha fatto crack, mi si è spaccato in mille pezzi».
Perché non avete pensato a un’adozione internazionale?
«Perché con Chiara non siamo sposati, quindi abbiamo deciso di aspettare ma nel frattempo ci siamo visti sempre. L’ultima volta siamo stati due mesi in vacanza insieme e quando è arrivato il momento di separarci perché loro dovevano tornare a scuola siamo stati investiti da un treno: la casa era calata in un silenzio pazzesco. E abbiamo deciso: non potevamo far finta di non averle mai conosciute».
Prenderanno il suo cognome?
«Penso di sì, ma sono dettagli legali che non abbiamo ancora discusso. A giugno saranno entrambe maggiorenni e arriveranno da noi: non vediamo l’ora noi e non la vedono loro».