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 2025  maggio 11 Domenica calendario

I conti del Vaticano

Nel 2013 Benedetto XVI si dimise dal ruolo di vicario di Cristo sulla Terra ma anche da quello di capo di uno Stato Vaticano in piena tempesta finanziaria (accusato da Moneyval, l’authority europea contro i crimini economici, di non fare abbastanza contro il lavaggio di denaro sporco) un mese dopo la decisione della Banca d’Italia di bloccare tutti i sistemi di pagamento elettronico dello Stato pontifico: non rimase attivo nemmeno un bancomat. In Conclave i cardinali conservatori Usa appoggiarono il progressista Bergoglio sperando che l’energico e radicale gesuita venuto dalle Americhe avesse la forza e la determinazione per porre fine alle degenerazioni che l’ascetico Ratzinger non aveva visto o non aveva saputo fronteggiare. Francesco ha tentato di risanare, ha imposto più trasparenza, ma ha lasciato l’opera incompiuta per le resistenze della Curia e anche per alcune sue esitazioni.
I buchi di bilancio
Intanto accanto ai buchi finanziari, in qualche modo arginati, sono cresciuti altri disavanzi: soprattutto quello del fondo pensioni del Vaticano, una voragine da due miliardi di euro. L’agenda di Leone XIV, già piena di impegni teologici (le dispute dottrinarie tra progressisti e tradizionalisti, le fughe in avanti della chiesa tedesca), diplomatici (la revisione dei rapporti con la Cina) e di appelli alla pace, in un mondo scosso da mille conflitti, avrà comunque, in bella evidenza nelle prime pagine, proprio i nodi finanziari: essenziali per il futuro della Chiesa, anche se tenuti in ombra perché lontani dai valori pastorali che animano le discussioni tra i cattolici.
Supportato da una chiesa americana già abituata a seguire moderni criteri di bilancio nella gestione delle sue risorse, Francesco si era trovato paracadutato in un mondo di congregazioni spesso allergiche a ogni rendiconto contabile: territorio ideale di scorribande di finanzieri laici spregiudicati, attratti dalla possibilità di operare in uno Stato esentasse e privo di controlli finanziari. Oggi c’è chi accusa Bergoglio di aver fatto poco e di consegnare al suo successore una Chiesa sull’orlo della bancarotta.
In realtà lui ha tentato di fare pulizia affidandosi alla determinazione di George Pell, un vero bulldozer, fin dal suo imponente aspetto fisico. Ma il cardinale australiano ha trovato mille ostacoli nella Curia. Poi sono arrivate le accuse di pedofilia che lo hanno bloccato per anni, prima di arrivare all’assoluzione con formula piena.
L’austerità di Francesco
È, però, vero che quando gli esperti laici chiamati a rimettere ordine hanno scoperto che, a 40 anni dagli scandali dello IOR di Marcinkus e delle scorribande finanziarie di Calvi e Sindona, il Vaticano era scivolato di nuovo nella melma finanziaria con operazioni come quella degli immobili incautamente acquistati a Londra e gli hanno chiesto di colpire alti prelati, Francesco ha esitato. Solo più tardi si arriverà ai processi vaticani con la condanna del cardinale Becciu. Nella sua autobiografia Bergoglio individua proprio in queste vicende finanziarie il principale cruccio del suo papato.
E davanti al quadro dei crescenti squilibri di bilancio di uno Stato che non incassa tasse ma vive, oltre che delle entrate dei musei vaticani, di una beneficenza soprattutto americana e tedesca, Francesco ha cercato soluzioni nella sua mentalità frugale: una Chiesa più modesta e taglio dello stipendio dei cardinali. Così ha seminato malumore e ha spinto le congregazioni ad andare a cercare donazioni, a volte non disinteressate, senza incidere davvero sul disavanzo. Alla fine, pochi giorni prima del suo ricovero al Gemelli e della sua scomparsa, il pontefice aveva riconosciuto che nella spesa sono ormai inevitabili «decisioni difficili», dolorose, e aveva ammesso la necessità di ricorrere di più ai donatori: spesso conservatori americani che non lo amavano.
C’è chi dice che l’indebitamento è enorme considerate le dimensioni minuscole dello Stato pontificio. Secondo altri è paradossale che un’organizzazione padrona di una quantità enorme di opere d’arte di valore inestimabile rischi la bancarotta per un paio di miliardi (quello che a Londra hanno speso per costruire i nuovi stadi di Wembley e del Tottenham): salvando Michelangelo, Caravaggio e Leonardo, basterebbe vendere un po’ di opere accatastate negli scantinati del Vaticano.
Una strada umiliante che la Chiesa non vuole percorrere. Restano, così, i donatori. Quelli con le tasche più capienti sono i conservatori americane della Papal Foundation e di altre organizzazioni filantropiche confluite a Roma nei giorni della “sede vacante” per l’incontro annuale dei fund raiser chiamato «America Week». Secondo il Times di Londra i donatori della fondazione papale hanno promesso di raddoppiare il fondo di quest’anno fino a 30 milioni di dollari e di raccogliere, in futuro, altri 750 milioni, «a patto che venga scelto il Papa giusto».
Le donazioni americane
Il Conclave non si è fatto condizionare: Prevost non sarà la spada fiammeggiante dei conservatori. Ma, da americano pragmatico con esperienza di gestione di organizzazioni complesse (gli agostiniani) dovrebbe sapere dove mettere le mani. E dovrebbe essere in grado di tenere testa a una Curia che conosce bene per gli incarichi che ha avuto in Vaticano, ma della quale non fa parte. Mentre i donatori americani che chiedevano più trasparenza, oltre che meno fughe in avanti teologiche, dovrebbero sentirsi a loro agio con Leone XIV.