Corriere della Sera, 10 maggio 2025
Intervista a Ernesto Colnago
Come il suo mentore Enzo Ferrari, l’ingegner Ernesto Colnago ha ricevuto da adulto, a 93 anni, quella laurea magistrale che non aveva potuto prendere in aula da giovane. Gliel’ha conferita giovedì scorso il Politecnico di Milano per «aver concepito numerosi gioielli della meccanica», come ha spiegato la rettrice Donatella Sciuto, introducendo soluzioni tecniche innovative nel disegno dei telai della bici, della sezione dei tubi e dell’uso del carbonio, ha precisato Lorenzo Dozio, preside della Scuola di Ingegneria Industriale. Conseguita la licenza elementare nel 1942, il più celebre costruttore di biciclette del mondo dovette interrompere gli studi a 13 anni per entrare nell’officina di Dante Fumagalli a Cambiago, periferia milanese, riparando e saldando tutto quello che era riparabile e saldabile: bici, motorette, auto e perfino trattori.
Com’è andata al Politecnico, ingegner Colnago?
«Ho pianto, non mi vergogno di dirlo. Ho pensato a mia moglie Vincenzina che non c’è più, la roccia su cui mi sono sempre appoggiato, a quanto veloci sono passati gli ultimi ottant’anni e a quanto mi mancava non aver proseguito gli studi. C’erano tanti amici e tanti dei corridori che hanno usato le mie bici».
Non era possibile studiare?
«Era inconcepibile: i miei erano lavoratori agricoli, aiutarli era un dovere. Quello da Fumagalli era apprendistato a pagamento, mamma lo compensava con due sacchi di farina gialla da polenta a settimana come si usava all’epoca. Da lui imparai tutto quello che si poteva fare con mani, pinze e saldatrice».
E poi?
«Nell’inverno del ‘45 mi presero in prova alla Amf Gloria di viale Abruzzi a Milano come apprendista saldatore, poi come montatore di bici da passeggio e corsa. Avevano disperato bisogno di operai perché la guerra li aveva decimati. Mentii sull’età altrimenti non mi avrebbero assunto, fecero finta di credermi».
Come andava a lavorare un bambino di 13 anni?
«In tram o in bici per 23 chilometri da Cambiago a Milano seguendo la scia dei pochi ciclisti che avevano il lumino a carburo sul manubrio: in strada era buio pesto. Mia madre aveva sforbiciato il cappotto di lana con cui zio Ambrogio era tornato dalla campagna di Russia: era un pastrano lungo, divenne un cappottino. Il freddo sulla pelle di quegli anni non l’ho mai più sentito in vita mia».
Sembra un romanzo dell’Ottocento.
«Senza miseria e senza disperazione, però. Ero felice di fare quel lavoro, di condividere le regole della catena di montaggio con i colleghi, di portare a casa qualche soldo. Al banco c’erano personaggi rudi ma fenomenali come Ernesto Formenti che pochi anni dopo vinse l’oro nella boxe a Londra. A casa comunque il pane non mancava: papà lavorava bene con il bestiame».
La svolta?
«Un incidente di bicicletta sul traguardo della Milano-Busseto, punto di arrivo della mia breve carriera di corridore della categoria allievi: con una gamba ingessata non potevo arrivare in fabbrica e invece di darmi malato chiesi al titolare, Alfredo Focesi, di spedirmi a casa ruote e telai che avrei montato in uno stanzino che un tempo era la stalla. Era perplesso e per convincerlo gli spiegai che non volevo essere pagato in denaro ma in materiale».
Perché?
«Montavo venticinque biciclette e quaranta ruote a settimana, ero velocissimo, usavo il materiale che ricevevo come salario per riparare le biciclette prima degli amici e poi di chi ne aveva bisogno in paese. Avevo capito che il posto fisso non era per me, che avrei dovuto inventarmi qualcosa guadagnando più dello stipendio da operaio. Al banco in fabbrica non sono più tornato, mio padre mi cedette un minuscolo locale che diventò la prima bottega Colnago».
Poi cosa accadde?
«Fino alla primavera del 1955 ero un semplice riparatore di biciclette. Poi un giorno Giorgio Albani, gran direttore sportivo, si fermò davanti al negozio con Fiorenzo Magni a cui facevano male un ginocchio e il polpaccio. Giorgio gli propose di entrare da me per capire se la bici aveva qualche problema».
Magni aveva già vinto due Giri d’Italia, era un eroe del ciclismo, controverso per il suo passato di repubblichino.
«Era un gigante e anche un uomo superbo, d’istinto rispose ad Albani che un bugigattolo del genere non era per lui. Ma poi ci ripensò ed entrò. La sua pedivella si era spostata, la rimisi in asse con il tubo piantone. Se ne andò borbottando, poco convinto, ma tre giorni dopo mi mandò Isaia Steffano, il suo massaggiatore, che mi propose di seguirlo al Giro come assistente meccanico. Magni vinse quel Giro, il primo dei miei venticinque in ammiraglia. Cominciai a costruire bici da corsa. Nel 1957 quella che mi cambiò la vita, destinata al grande Gastone Nencini. All’epoca non usavano scrivere il nome del produttore sul telaio, io gliela consegnai bianca. Gastone mi disse che bianca non gli piaceva e mi fece scrivere sopra “Chlorodont”, lo sponsor della squadra. Fu l’ultima senza il mio nome impresso sopra».
Cosa significa costruire una bici?
«La devi cucire addosso al corridore, deve diventare la sua seconda pelle. In un abitacolo di F1 puoi anche sentirti a disagio per le due ore di gara, in sella a una bici no: ci devi respirare, mangiare, soffrire, vivere per ore ogni giorno».
In fondo si tratta di tubi di metallo uniti tra loro.
«Il corridore lo devi misurare (altezza, cavallo...), certo, ma ci devi anche parlare e poi seguirlo in gara per capire come si trova, come lavorano le ginocchia, come risponde agli scatti o punta le discese. C’è chi la vuole rigida e scattante, chi più “morbida”, chi deve stare comodo e chi come Merckx la cavalca a pelo senza paura».
Il segreto?
«Il segreto ai tempi dell’acciaio era la saldatura, il saldatore era un artista, un maestro: da come sapevi fondere quel colletto di riporto del materiale attorno alle congiunzioni tra i tubi dipendeva tutto e se si il telaio scartava anche di un millimetro avevi fallito. Io costruivo telai più piccoli dello standard per renderli più scattanti e appena saldati li mettevo in un forno con il materiale refrattario per affrettare i tempi e renderli indistruttibili».
Lei re dell’acciaio fu il primo a sdoganare il carbonio.
«Con l’aiuto di Enzo Ferrari che accettò di ricevermi: io ero un semplice costruttore, lui una leggenda di fronte alla quale provavo soggezione. Ci mise a disposizione il centro studi di Maranello ma soprattutto il suo genio: esaminavamo i miei schizzi e lui intuiva i possibili punti di rottura e le soluzioni. Quando Ferrari mi disse che il carbonio poteva reggere sollecitazioni e vibrazioni mi ci buttai».
Il carbonio esordì su pavé alla Parigi-Roubaix del 1996. Un azzardo incredibile.
«La Mapei portò a Parigi anche un set di bici in alluminio, per sicurezza. Patron Giorgio Squinzi era terrorizzato, io mi fidavo di calcoli e test di laboratorio ma avevo paura: una rottura mi avrebbe ridicolizzato. Quando accesi la tv e vidi tre uomini Mapei in testa capì che l’era del carbonio era iniziata».
Lei ha venduto la Colnago a un fondo arabo ma il marchio resta fra i più apprezzati al mondo. A Cambiago ha aperto un museo dove le bici sono esposte così com’erano: il telaio scheletrico con cui Merckx fece il record dell’Ora in Messico, la polvere sulla «Super» di Saronni al Mondiale dell’82, il fango sulla C40 del trionfo di Ballerini a Roubaix.
«È uno spazio personale, intimo: volevo raccontare il filo della mia lunga vita e trasmettere ai ragazzi delle scuole che vengono tutti i giorni cosa si può fare se si hanno voglia di lavorare e coraggio di portare avanti le proprie idee. Fino a quando ne avrò la forza, sarà io a guidarli nel viaggio e quando gli si spalancano gli occhi davanti a una foto o a un telaio io mi sento un ragazzino come loro».