la Repubblica, 10 maggio 2025
Il reportage Il sorriso della Siria senza Assad ma tra le macerie cova il rancore
La prima cosa che colpisce il viaggiatore in Siria, a cento giorni dalla caduta dell’odiato regime di Bashar al Assad (Jonathan Littell è arrivato in Siria a marzo, ndr), è la gioia. Nel taxi su cui salgo a Beirut interrogo il mio autista, che mastica qualche parola di inglese: «C’è libertà in Siria?». «Libertà, per sempre!». A colpire è anche la gentilezza: a un posto di blocco un soldato con la barba ci saluta, e dopo aver dato un’occhiata attraverso i vetri dichiara: «Pregherò per la vostra sicurezza». Questa gioia quasi incredula, la gioia di una cappa di piombo che dopo più di cinquant’anni si è sciolta, si condensa in alcuni attimi magnifici. Il 15 marzo, anniversario dell’inizio della rivoluzione, sono arrivato ad Homs – una città dove avevo trascorso diverse settimane nel gennaio del 2012 nel momento di svolta in cui i sollevamenti contro la spietata repressione del regime si stavano militarizzando e il Paese sprofondava nella guerra civile. All’epoca lavoravo con numerosi attivisti, pochi dei quali sono ancora in vita. Ma Omar Telaui, uno di loro, è ancora vivo, e sono riuscito a rintracciarlo. Mi ha raggiunto la sera stessa per l’ iftar – la pausa serale del digiuno durante il Ramadan – vestito con una giacca blu piuttosto elegante e ostentando una folta barba islamica. Il suo viso appariva segnato dagli anni, ma la voce, roca ed entusiastica – così caratteristica nei video sulle atrocità che all’epoca diffondeva quotidianamente – non era cambiata. Omar mi ha raccontato degli ultimi anni: della sua fuga a Telbissi, a nord di Homs; dei cinque anni trascorsi vagabondando per quelle zone, di nascondiglio in nascondiglio e della decisione di imbracciare un’arma e combattere. Alla fine è approdato a Idlib. Il suo idealismo, l’ho intuito chiaramente, è rimasto intatto, anche se quegli anni d’inferno lo hanno reso molto più religioso. «Mi sono riavvicinato a Dio per essere pronto a morire».
Ci siamo poi diretti verso l’emblematica Piazza dell’orologio, che nel 2011 era stata teatro delle prime manifestazioni di massa, quando il regime non aveva ancora iniziato ad aprire il fuoco contro i dimostranti. Qui oggi è tutta una festa: la rivoluzione è tornata in questa piazza, e nessuno dei presenti ignora il significato simbolico di questa circostanza. Attorno a noi si accalcano delle famiglie per unirsi alla folla festante, tra migliaia di bandiere con i colori della rivoluzione – l’antica bandiera siriana che ha preceduto l’avvento del Baath – mentre colonne di altoparlanti diffondono canti rivoluzionari che i presenti intonano a memoria. È la stessa allegria che animava le manifestazioni a cui avevo assistito nel 2012, resa però oggi più intensa dalla gioia definitiva della vittoria.
Poco prima, quello stesso giorno, avevamo fatto il giro dei quartieri rivoluzionari della città: Baba Amr, Khaldiye e Bayada. Gli stessi che nel 2012 frequentavo con gli attivisti civili e i combattenti dell’Esercito libero siriano. All’epoca erano sotto il fuoco costante dei cecchini e dei mortai, eppure apparivano relativamente intatti. Oggi questi vasti quartieri sunniti e proletari non sono che cumuli di macerie: devastati, violati, distrutti dal regime e dai suoi alleati russi e iraniani. E da un capo all’altro della Siria lo spettacolo si ripete: gli immensi sobborghi di Damasco, la parte orientale dell’antica città di Aleppo, le numerose cittadine tra Hama e Idlib sono delle città morte, come i villaggi bizantini abbandonati della regione: chilometri di edifici devastati, gusci vuoti di cemento, fatiscenti e in parte crollati. Sono stati massicciamente colpiti da razzi, bombe e barili di esplosivi sganciati dagli elicotteri, per poi essere, dopo la resa, svuotati degli abitanti e degli ultimi resistenti – fatti evacuare verso Idlib. Queste stesse zone sono state in seguito cedute a delle organizzazioni legate alla famosa Quarta divisione di Maher al Assad, fratello di Bashar, che le hanno sistematicamente saccheggiate di ogni cosa. Dagli edifici, che si trattasse di scuole, ospedali o abitazioni private, è stato portato via tutto. Non solo i mobili e gli elettrodomestici, ma anche le porte e le finestre, i telai degli infissi, le prese, gli interruttori e i cavi interni alle pareti. E quando il cemento è rimasto spoglio, sono stati demoliti i tetti, per ricavarne le travi di metallo da rivendere.
Dei milioni di persone che un tempo abitavano qui, solo una manciata è riuscita a farvi ritorno, e la loro presenza si scorge qua e là tra le macerie: un balcone coperto di cactus o di fiori, una finestra spalancata ma tenuta in parte nascosta, il muro di un appartamento crollato e ricreato con dei mattoni... Timidi indizi di una vita che tenta di ripartire. È l’altra Siria, dove la disperazione delle vite spezzate e dell’odio incontra la gioia e la speranza.
Tra le rovine di Bayada mi soffermo con un ragazzo di 11 o 12 anni che brandisce un bastone con il quale minaccia un compagno: «Nella Siria libera – lo rimprovero con garbo tramite il mio fotografo – non c’è più bisogno di combattere». Il ragazzo, che ha gli occhi scintillanti, si mette allora il bastone in spalla e fa il gesto di chi arma un Kalashnikov: «Ci sono ancora degli alawiti che tentano di entrare nei nostri quartieri!».
«Tutte queste persone che il regime per 50 anni ha torturato sono una bomba a orologeria», mi spiega con tono gentile Fidaa al-Horani: una oppositrice della vecchia generazione che ha trascorso tre anni in prigione per poi fuggire in Francia nel 2013. Questa bomba, che nei primi mesi dopo la caduta del regime è rimasta come disinnescata, è esplosa dieci giorni prima della festa della rivoluzione.
Dopo aver condotto qualche retata a dicembre e a gennaio, le nuove autorità hanno presto ridotto le operazioni di sicurezza lungo la costa siriana, considerata bastione degli alawiti, nella speranza che la maggioranza di questi (appartenenti a una setta dissidente dello sciismo da cui derivano il clan Assad e la maggior parte dei torturatori del regime, degli ufficiali dell’esercito e dei servizi segreti e deglishabbihas, delinquenti di bande criminali reclutati nelle milizie) accettasse il nuovo stato di fatto, ma anche per rassicurare la comunità internazionale. A metà febbraio Ahmad al Sharaa si è addirittura concesso il lusso di un bagno di folla a Latakia e a Tartus.
Quelli che i siriani oggi chiamano semplicemente fulual al-Nizam, o “vestigia del regime”, hanno approfittato di tanta leggerezza, e il 6 marzo alcuni di loro, pesantemente armati, hanno massacrato una pattuglia di 16 uomini della Sicurezza generale a sud di Latakia per poi lanciare un’offensiva su larga scala contro le postazioni governative lungo la costa, sino a sud di Baniyas. Il governo ha invocato la mobilitazione generale, alla quale hanno risposto forze provenienti da tutto il Paese: non solo gli uomini dell’Htc, ma anche miliziani islamici, in alcuni casi stranieri, che si erano rifiutati di unirsi al nuovo esercito nazionale e, per finire, gruppi di civili armati desiderosi di mettere in pratica iltar,o la vendetta comunitaria. A partire dal pomeriggio del 6 questi gruppi fuori controllo hanno fatto irruzione nelle località della costa, attaccando i civili alawiti e scatenando un bagno di sangue tanto violento quanto improvviso. I social sono stati immediatamente inondati da filmati che mostravano episodi di umiliazione e uccisioni brutali, postati non solo dai sopravvissuti ma anche dagli stessi carnefici, giubilanti.
Il governo, colto di sorpresa e già coinvolto in pesanti combattimenti con ifulual che gli sono costati la perdita di centinaia di uomini, ha tardato a rendersi conto delle atrocità che venivano commesse in suo nome. Nel giro di due giorni, sino a quando non è riuscito a ristabilire il controllo e riportare in riga i gruppi di combattenti inferociti, il numero delle vittime civili ha superato il migliaio.
La sera dell’8 marzo Ahmad al Sharaa – di cui è nota la propensione a temporeggiare prima di prendere decisioni – ha rotto gli indugiordinando ai suoi uomini, in nome della “nuova Siria”, di proteggere le famiglie alawite e di trattare con umanità ifulual catturati. Le forze leali al governo hanno isolato ovunque i quartieri e i villaggi alawiti ed espulso i facinorosi, mentre i media governativi diffondevano le immagini di numerosi arresti. Alcuni dei responsabili sono stati identificati grazie ai filmati circolati sulla rete. I massacri erano finiti, ma gli scontri con ifulual sono andati avanti per altre due settimane. La vicenda ha compromesso l’immagine del governo e minato la fiducia delle minoranze verso la transizione.
Quando il 6 marzo sono scoppiate le violenze lungo sulla costa, si è temuto che gli attacchi potessero estendersi alla provincia di Homs. Dalla sera del 6, quindi, le nuove autorità hanno adottato misure stringenti per impedire che le violenze si propagassero in queste zone, dispiegando con successo un’ingenteforza militare al fine di proteggere dai facinorosi i quartieri e i villaggi alawiti, che hanno ricevuto anche il sostegno spontaneo della società civile: numerosi volontari come Omar Telaui si sono infatti presentati nei quartieri alawiti per filmare i posti di blocco e diffondere le riprese in diretta via Facebook o Instagram al fine di tranquillizzare gli animi. Le immagini mostrano soldati incappucciati che ordinano ai sunniti armati di allontanarsi, minacciandoli talvolta con l’uso della forza e sparando in aria per obbligarli ad arretrare.
Ho incontrato uno di quei giovani volontari, Amir Abdel Baqi: un giornalista che ha seguito a lungo Abdel Basset Sarout, l’ex portiere di Homs morto in combattimento nel 2019 e diventato per questo un’icona della rivoluzione. Amir ci ha mostrato con orgoglio le sue numerose riprese, tra cui una in cui lui stesso appare elegante, con una giacca lilla, il pizzetto e i lunghi capelli tirati indietro. È stata girata non appena sulla rete si era diffusa la voce che gli abitanti di Baba Amr si stavano preparando a massacrare gli alawiti. Amir si è recato prontamente sul posto per mostrare in tempo reale che in realtà i presunti assalitori stavano bevendo pacificamente il tè nelle loro case o si erano già coricati. «Ho ricevuto 153mila visualizzazioni!», esclama. «Leggete i commenti», aggiunge, facendoli scorrere sullo schermo. «Sono centinaia di alawiti che mi ringraziano perché li ho rassicurati».
Esiste tutta una generazione di dissidenti siriani che non avevo mai conosciuto: sono ormai anziani e quasi tutti sono stati incarcerati sotto Hafez al Assad o suo figlio Bashar dopo l’effimera “primavera di Damasco”. Abu Ali Saleh, un ex militare alawita del Partito Laburista è uno di loro. Ai tempi di Hafez ha trascorso 12 anni in isolamento nel carcere di Sednaya. Calvo, con dei baffi folti e bianchi, appare calmo e posato. Lo scorso dicembre è stato uno dei fondatori dell’Iniziativa per la pace civica (Ipc), un’associazione della società civile che collabora con le autorità per ridurre le tensioni tra le diverse comunità e documenta con precisione gli episodi di violenza, allo scopo di rettificare le “fake news” che abbondano sui social. L’Ipc interviene spesso anche in alcuni casi concreti, come quello che riguarda il quartiere misto di Woroud, a nord della città vecchia di Homs. Qui nel 2014, dopo che i sunniti erano stati obbligati a lasciare il quartiere, le milizie del regime hanno distrutto le casette dei poveri per far posto a nuove costruzioni, realizzando degli appartamenti poi venduti. Alla caduta del regime i proprietari originari di quei lotti di terreno sono tornati sul posto reclamando le proprie terre. «Facciamo opera di mediazione – commenta Abu Ali – Ma ci vorranno anni». La questione chiave per Abu Ali e i suoi amici rimane quella della giustizia: «Le ferite da sanare sono enormi, e se non c’è giustizia non potrà esserci pace». Le comunità alawite della costa e nella provincia di Homs esigono un’amnistia incondizionata. «Noi cerchiamo di spiegare loro che in assenza di giustizia l’amnistia non porta da nessuna parte. Non si possono dimenticare i diritti delle persone che reclamano giustizia».
Il problema è che per il nuovo governo questa non sembra essere una priorità. A dirlo è l’avvocato alawita Maan Saleh, altro fondatore dell’Ipc. «Le cose avrebbero dovuto essere impostate da subito, mentre dopo tre mesi ancora non esistono nemmeno liste dei criminali di guerra arrestati o ricercati. Per questo al posto della giustizia abbiamo la vendetta. E questo intensifica la paura». Lo stesso Ahmad al Sharaa sembra quasi infastidito dall’argomento: «Quando le persone dicono che stiamo trascurando il loro diritto alla vendetta – ha dichiarato lo scorso dicembre in un’intervista rilasciata allo youtuber giordano Joe Hattab – io rispondo loro: “Vi abbiamo restituito tutta la Siria”».
La questione della giustizia è strettamente legata alla costruzione dello Stato. Amjad Kallas, un altro anziano dissidente amico di Abu Ali, insiste molto su questo aspetto. Parlando del governo, dice: «Se rimanessero sui loro principi dimenticando l’ideologia (islamista) da cui provengono, sarebbe un buon segno per il futuro. Ma le sfide sono innumerevoli. Che Stato avremo? Quale legge?». Come tanti altri, Amjad allude al timore di una deriva islamista da parte delle nuove autorità. Nessuno ha dimenticato il passato jihadista del Fronte al Nusra, che al Sharaa dirigeva con il nome di battaglia di Abu Muhammad al Jolani. Le difficoltà delle prime nomine governative (comequella al ministero della Giustizia di Shadi al Waisi, che nel 2015, in qualità di giudice di al Nusra aveva personalmente seguito l’esecuzione di due donne condannate per prostituzione) hanno alimentato questi timori.
Di passaggio a Idlib, sono stato invitato per uniftar con Ossama al Hussein, l’ex capo del consiglio locale della città di Saraqib. Essendosi rifiutato di lavorare con l’Htc quando l’organizzazione aveva preso il controllo della città nel 2017, era stato costretto a fuggire in Turchia. «Dal 2020 sono davvero cambiati», sostiene al Hussein, che ha seguito da vicino tutta l’evoluzione del gruppo a partire dalla sua creazione. Nel 2016, dopo aver rotto con Al Qaeda e aver annientato lo Stato islamico nella regione di Idlib, al Jolani ha avviato una “sirizzazione” del suo movimento, che si è conclusa nel 2017 con la creazione dell’Htc. Un po’ alla volta al Jolani ha estromesso tutti i suoi collaboratori. «A novembre del 2023 quasi tutti i massimi dirigenti dell’Htc. Circa 1200 persone in totale, alcune delle quali molto vicine a Jolani. Gli unici rimasti erano Anas Khattab, Abu Qasrah e Shaibani». I tre, intimi di al Sharaa, oggi sono – rispettivamente – ministri dell’Interno, della Difesa e degli Affari Esteri. «Ritengo che abbiano le capacità per riuscire. Sanno indirizzare e dirigere le risorse. Non dispongono di personale, ma una volta che la questione salari sarà risolta faranno rientrare i siriani dall’estero per integrarli». Invitato a partecipare alla giornata del dialogo nazionale, Ossama ne ha tratto un senso di cauto ottimismo: «Abbiamo ottenuto meno di quanto desideravamo, ma molto più di quanto ci aspettassimo da Jolani».
Va detto che quando la dichiarazione costituzionale è stata pubblicata, a richiamare l’attenzione di molti osservatori, soprattutto europei, è stato in particolare l’articolo 3.1. “... la giurisprudenza islamica è la fonte principale di legislazione”. Le reazioni, secondo alcuni, hanno sfiorato l’isterismo. Eppure l’articolo non differisce quasi in nulla dalla Costituzione del partito Baath, che si pretende laica e rispetto alla quale è stato solo aggiunto il termine “principale”. Abu Hanin, un ex attivista dell’informazione di Baba Amr conosciuto in passato e brevemente incontrato di recente tra le macerie del suo quartiere natale, liquida questo problema con franchezza: «Quando lasciai Baba Amr capii che solo chi aveva la fede sarebbe stato sufficientemente forte da sopravvivere a tutto quello che ci veniva inflitto: i barili esplosivi, il gas... È per questo che hanno vinto loro e stanno al potere. Commetteranno molti errori e noi dovremo pagarne il prezzo. Poi capiranno e si rafforzeranno. In Siria la religione è così, non puoi cambiarla. Il secolarismo da noi non funzionerebbe. L’estre-mismo nemmeno, e questo Sharaa l’ha capito molto bene».
In realtà, dietro lo spaventapasseri islamico si nasconde un altro pericolo, ben più reale ed inquietante: quello della deriva dittatoriale. Al Sharaa, il cui padre è un economista progressista che ha pubblicato libri sulla democrazia in Siria, è visibilmente a disagio con questa parola, e quando la domanda gli viene posta in maniera esplicita tende a schivarla. Inoltre, la dichiarazione costituzionale non incoraggia l’ottimismo. Malgrado tutto, gli attivisti sono ancora disposti a concedere il beneficio del dubbio. «Se dopo questi 53 anni dovessimo finire con un autoritarismo soft – mi ha detto a Berlino Orwa Nyrabia, un mio amico cineasta in esilio – sarebbe comunque un colossale passo in avanti. Forse non possiamo aspettarci di meglio.
Uno dei miei ultimi giorni in Siria ho visitato Maalula, un piccolo villaggio cristiano incastonato tra i monti a una sessantina di chilometri a nord di Damasco, noto per essere uno degli ultimi luoghi al mondo dove ancora si parla l’aramaico, la lingua di Cristo. Il monastero purtroppo era chiuso, così siamo scesi nel villaggio per comprare delle birre fresche e visitare la spettacolare gola che dà al paese il suo nome aramaico di “ingresso”. Si dice che la gola sia stata aperta da Dio per permettere a Cristo di attraversarla. Ci siamo messi a parlare con due uomini, che guarda caso erano di Baba Amr. Al momento di andarsene l’uomo si è voltato per dirmi: «Torna a farci visita per la prossima rivoluzione!». Io ho riso. «Contro chi sarà la prossima rivoluzione?». Il suo volto si è improvvisamente adombrato: «Non lo dico. Ma sappi che siamo pronti».