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 2025  maggio 10 Sabato calendario

Il solco tra il Vaticano e la politica italiana

Ancora una volta l’elezione del nuovo pontefice ha misurato la distanza tra l’istituzione che per secoli gli italiani erano abituati a considerare come propria e la realtà della nostra politica.
Nel 1978 l’avvento del papa polacco aprì una frattura che non si è più ricomposta: anzi, si è via via allargata.
Ad ogni conclave si ripropone la mesta speranza di un “papa italiano”, nostalgia di un ritorno impossibile al passato. E ogni volta la distanza aumenta, man mano che si estende la presenza planetaria della Chiesa cattolica: in crisi e lacerata, come sappiamo, incalzata da altri movimenti religiosi, forte ma non più fortissima nei numeri dei fedeli eppure capace di fissare suoi capisaldi ovunque nel mondo.
Giovanni Paolo II fu l’inizio della nuova stagione, ma senza rotture clamorose. I diari di Giulio Andreotti, ad esempio, raccontano che furono costanti gli incontri del papa polacco con lo statista romano. Peraltro nulla di paragonabile ai rapporti stretti, di amicizia personale e affinità politica, tra Paolo VI, Giovan Battista Montini, e Aldo Moro, fino alla tragedia nel 1978 del sequestro e dell’omicidio. La supplica del pontefice agli “uomini delle Brigate Rosse” affinché liberassero il loro prigioniero “così, senza condizioni” rimane una delle pagine più drammatiche della relazione tra la chiesa e il mondo politico italiano. Fu anche una delle ultime perché il ‘78 fu l’anno dei tre papi: la morte di Montini, l’effimera parabola del patriarca di Venezia, Luciani, e appunto l’inizio del lungo regno di Wojtyla.
Oggi, quasi 50 anni dopo, la politica italiana non conta quasi più niente al di là del Tevere, che non è mai stato così largo. Roma è rilevante in quanto ospita il Vaticano e una costellazione imponente di basiliche e chiese che sono testimoni di una storia millenaria, ma niente di più. Non solo: mentre la voce dei papi – quale che sia il giudizio sulle scelte di ciascuno di loro – si è fatta più stentorea, in obbedienza allo spirito dei tempi e alle esigenze della società della comunicazione, la politica italiana si è rimpicciolita ed è quasi scomparsa sullo sfondo. Lo vediamo anche nelle reazioni al papa americano.
Frasi fatte che potrebbero essere adattate, con minime correzioni, a una quantità di altri candidati al soglio. Generici richiami alle caratteristiche di un pontificato (più o meno fedele all’eredità di Bergoglio) che deve ancora cominciare e di cui si conoscono appena alcune frasi dei primi discorsi.
In altre parole, i politici italiani esistono soprattutto poiché, manifestando rispetto e devozione al nuovo pontefice, possono sperare di ottenere qualche consenso in più tra gli elettori cattolici. Eppure la storia d’Italia non è evaporata con il papa venuto da oltre oceano. Al contrario, la scelta del nome, Leone XIV, è tutt’altro che casuale. Si rifà all’ultimo papa dell’Ottocento, attento ai movimenti in atto nelle società della sua epoca, alle trasformazioni in corso.
Fu il papa che si rivolse con un’enciclica al nuovo mondo, gli Stati Uniti appunto, e che pose i temi del lavoro al centro della sua azione. Guardava senza dubbio a quello che accadeva intorno a lui, in Italia, ed erano anni difficili, persino sanguinosi. La famosa “Rerum novarum” non si rivolgeva solo all’Italia, è ovvio. Ma fu qui – e in Germania – che ebbe un’eco particolare. Suonò come la risposta cattolica alla diffusione del socialismo, che portava con sé una carica eversiva: il contrario di ciò che postulava la dottrina sociale della chiesa, fondata sulla solidità della fede.
Si capisce che Leone XIV abbia voluto richiamarsi a quell’esempio nel momento in cui i problemi del lavoro, in forme nuove, si ripropongono nell’epoca post-moderna. È un modo per collegarsi a una tradizione pur sempre italiana, nel momento in cui Prevost salta a piè pari i nomi di tutti i suoi predecessori novecenteschi.