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 2025  maggio 10 Sabato calendario

Intervista a Barbara Ronchi

Prima di indossare per mestiere i panni di chiunque, Barbara Ronchi si è vestita di tante cose. È stata commessa e cameriera, babysitter e hostess, si è laureata in Archeologia, ha dimostrato che il talento ha un proprio calendario e che a forza di interrogare le coincidenze si fa luce la verità: Barbara Ronchi è un’attrice, tra le più brave. Ha vinto molti premi, altri arriveranno. Nelle ultime tre edizioni del David di Donatello, il suo nome nella cinquina c’è sempre stato. Il tempo, per chi non ha fretta, è solo una convenzione.
Il suo primo vero ruolo, con Marco Bellocchio sul set di Fai bei sogni, lo ha ottenuto a 34 anni.
«Arrivo sempre in ritardo, anche agli appuntamenti. Cinque, 10 minuti, niente di grave. La cosa grave è che ho capito che mi piace perché a questo gioco tra me e me, a questa marachella e a questa buffoneria non riesco a rinunciare. Non è che non lo immagini l’altro che mi aspetta, non è che non mi dispiaccia per lui, è proprio che è più forte di me».
Anche il successo è arrivato tardi.
«Come tutto. In fondo ero anche partita bene: laureata a 24 anni, in archeologia classica. Poi nelle more della specializzazione avevo incontrato un professore appassionato di preistoria in procinto di dare il via a una missione nel nord est del Brasile e mi ero imbarcata nell’impresa con lui e con altri studenti. Mesi in una fazenda, non lontana da Pernambuco, svegliandomi alle 5 del mattino per scavare, cercare riparo dal sole a mezzogiorno, trascorrere il pomeriggio a lavare i pezzi e a classificarli e poi buttarmi a notte su un’amaca a vedere le stelle, enormi, di quel pezzo di mondo».
Cosa cercavate?
«Le tracce dell’uomo neolitico. Un contadino locale aveva contattato il professore perché aveva rinvenuto alcune ossa in un avvallamento e dopo uno studio geologico e un carotaggio era emerso che il bacino in questione aveva effettivamente molte stratificazioni antichissime».
L’avete poi trovato, l’uomo?
«No, era un bufalo, ma fu comunque stupendo provare a verificare una tesi con un’ipotesi, lanciarsi senza rete in un altro Continente, accarezzare l’idea della scoperta che era più bella della scoperta stessa. Per il nostro professore confermare le sue supposizioni forse era vitale, per noi molto meno. Nessuna rivelazione storiografica avrebbe potuto impreziosire la meraviglia di quel viaggio, la curiosità di quei giorni, la voglia di essere lì».
Le prime curiosità della sua vita?
«Mi piaceva molto scrivere temi. Andavo a scuola dalle suore e Suor Camilla mentre armeggiavamo con la penna e i fogli metteva in sottofondo le Quattro Stagioni. La musica ci suggestionava, Vivaldi donava a quelle composizioni infantili una certa magia. Eravamo bambini, capivamo poco, però deve essere stata una delle prime volte in cui ho riconosciuto la bellezza».
Suor Camilla a suo modo era una rivoluzionaria.
«Nella biblioteca che aveva creato ci dava i libri da leggere e poi ci chiedeva di recensirli: aveva idee luminose, Suor Camilla. In breve infatti la cacciarono. I genitori provarono a farla rimanere con qualche petizione che io ricordi con magri risultati».
A casa eravate tre fratelli.
«Io sono stata la prima, tre anni dopo è arrivata mia sorella con la quale sono cresciuta fianco a fianco passando l’adolescenza a vedere di nascosto la tv fino a notte fonda e dieci anni dopo, mio fratello».
Tre figli, sullo sfondo di casa Ronchi brillava l’anacronismo di una coppia solida.
«I miei genitori si sono amati e si amano ancora moltissimo. Si sono incontrati presto e sono rimasti accanto per tutta la vita. Spesso rientrando li trovavo abbracciati e avevo la sensazione di turbare un idillio perfetto in cui io e i miei fratelli eravamo quasi di troppo. Per non alterarlo avevo preso a annunciarmi suonando il campanello prima di salire: “Sono tornata, eccomi, si può?"».
Lei è nata in uno degli anni più felici del 900.
«Nei giorni in cui l’Italia vince il Mondiale dell’82. Mio padre che con la radiolina accesa ascolta le partite in Ospedale nei minuti in cui vengo al mondo non l’ho visto, ma me lo hanno descritto nei particolari testimoni molto affidabili».
Che viaggio è stato la sua infanzia?
«Un viaggio molto allegro. Il condominio in cui abitavo, nella Borgata Ottavia, era un paese. A Ferragosto – di vacanze all’epoca non si parlava proprio- a margine dei grandi pranzi con i parenti e di qualche bagno estemporaneo nelle piscine gonfiabili, allestivamo degli spettacolini per i tanti che restavano in città. Li scrivevamo, preparavamo i nostri vestiti e per le feste comandate pretendevamo anche che gli spettatori pagassero il biglietto. L’idea della rappresentazione è una cosa che mi ha entusiasmato e divertito fin da piccola».
Suo padre faceva il litografo.
«Faccio parte di quella maggioranza di figli che non ha mai capito benissimo che lavoro facesse il padre. Le macchine in cui metteva gli inchiostri facevano un casino infernale ed erano pericolose tanto che a causa di queste diavolerie papà si era anche rotto un dito. Ma amava la sua occupazione e si considerava un artista dei colori. Gli proposero di essere assunto all’Atac. Rifiutò».
Sua madre?
«Simpatica, vitale, energica e sorridente, sempre. Una donna adorabile. Quando sono nata aveva ventuno anni e lavorava da quando ne aveva 14. Presa la terza media si era data subito da fare: parrucchiera, addetta alla clientela in un negozio di sanitari, poi impiegata in un supermercato dove ogni tanto indossa ancora la divisa per qualche part-time. Si fermò solo quando nacque mio fratello. Per qualche anno pensò solo ai figli e al progetto di famiglia che aveva immaginato con mio padre».
Una storia così cosa insegna?
«Sei consapevole che devi darti da fare: senza musi e senza drammi».
Lei entrò in Accademia in un’età in cui normalmente si è già diplomati.
«Ero la più grande della classe ed ero circondata dai diciottenni. Diciamo che il ruolo della giovane figlia me lo ero già giocato. Fu una scommessa: enorme e anche un po’ scriteriata. Una volta completato il triennio iniziò il periodo delle tournée. A volte partivi per mesi ed erano mesi duri un po’ perché i soldi non bastavano mai un po’ perché a differenza di chi era più adulto e più esperto, vivevo il lavoro d’attore in maniera totalizzante. Che fossi in Umbria o in Calabria non riuscivo a godermi nulla dello spirito itinerante né riuscivo a sfruttare il tantissimo tempo libero che una professione come la mia può restituirti».
E cosa faceva?
«Spesso passavo le giornate nella camera d’albergo aspettando la replica serale. Poi, quando la tournée finiva, partivo per qualche viaggio raggiungendo gli amici e facendomi ospitare. Due mesi di qua, due mesi di là. Sempre con le tasche vuote e il bisogno di arrotondare con qualche lavoretto occasionale. In un anno potevi guadagnare seimila euro e seimila euro per vivere non bastavano».
Cosa ricorda dei tempi in cui faceva la commessa o la cameriera?
«Che erano due impieghi che mi piacevano molto: che servissi ai tavoli o rassicurassi le signore intente a provarsi i capi in camerino, ero sempre a contatto con gli altri. Interagivi, comunicavi, avevi i clienti abituali e quelli occasionali. In qualche modo, anche lì, si trattava almeno in parte di recitare. Ogni tanto incontravi gli stronzi e ogni tanto qualche persona meravigliosa. Quando entrai in Accademia dovetti lasciare il posto da commessa e una cliente che era venuta a saperlo decise di farmi un regalo: “Barbara, domani è il tuo ultimo giorno, scegli una cosa, la pago io”. Ero imbarazzata. Domandai al principale. Era sorpreso, non gli era mai accaduto niente del genere. Accettai il regalo, sorpresa e felice».
La gentilezza è importante.
«Non la cerco perché davanti a te trovi quello che trovi, ma so riconoscerla».
Sa riconoscere anche il momento in cui per lei la precarietà muto di segno?
«Ero in tournée con Silvio Orlando ne Il mercante di Venezia con la regia di Valerio Binasco. E nel frattempo, nelle pause, avevo accettato qualche posa in una fiction barcamenandomi a fatica con i calendari e con le date. A un certo punto la coabitazione tra le due cose fu impossibile e fui sostituita. Per me Binasco era un mito e quello spettacolo il massimo che potessi desiderare. Fu un duro colpo, pensai che non avrei mai più lavorato e mi venne una sorta di potente depressione».
Diagnosticata?
«Macché, non sono neanche mai andata in analisi nella mia vita, ero semplicemente molto triste, direi disperata, senza riuscire a tirarmi su. Mi salvò il Teatro Argot, a Roma. Lessi su Facebook che cercavano un’attrice per sostituire in uno spettacolo Vanessa Scalera, appena chiamata da Marco Tullio Giordana per un film e con la pochissima energia che mi restava mi presentai per fare il provino. Lo superai e andammo in scena: una delle prime sere venne la casting di Fai bei sogni a vederlo e mi chiese subito se fossi interessata a incontrare Marco Bellocchio. Iniziò tutto così. Per un caso. Nel momento più nero che potessi immaginare».
Come definirebbe il mestiere dell’attore?
«Un mestiere in cui molto di ciò che ti accade è nelle mani degli altri con dinamiche che ti sovrastano e nelle quali sentirsi impotente è il minimo che possa accaderti».
Il successo l’ha sorpresa?
«Per com’ero agli inizi e per la fiducia che nutrivo in me stessa, dal mio minuscolo punto di osservazione, era impensabile che qualcuno si accorgesse davvero di me: non era nei piani e nemmeno nei programmi. Ma ci speravo. Ero impegnata a diventare più brava. Ecco, c’è stata un’analisi costante, persino brutale su me stessa per cercare di capire che cosa mi mancasse. Lavoravo veramente poco. E quindi mi chiedevo – perché a un certo punto te lo devi chiedere- che cosa non andasse».
Cosa si rispose al tempo?
«Che il mio è anche un mestiere fitto di attese in cui è importante capire che non hai sbagliato e quelle attese non dipendono necessariamente dalla tua bravura, ma da altro. E quell’altro spesso è impalpabile, etereo, non razionale».
È stato difficile capirlo?
«C’è voluto tempo. Poi a un certo punto mi sono detta “questo tempo, il tuo tempo, sta scadendo perché non hai più vent’anni, ma ne hai già 34 e devi capire in fretta che cosa ti sta succedendo"».
È un lavoro di attese, ma anche di telefonate che ti cambiano la vita.
«Per offrirmi una parte in Imma Tataranni mi telefonarono il giorno in cui si ruppero le acque. Squillò il telefono, era la mia agente e non so neanche perché, risposi: “Ti hanno presa”. “Grazie, ne riparliamo tra un po’, sto entrando in sala parto"».
Cosa ricorda del suo primo set, nel 2010?
«La delusione. Ero appena uscita dall’Accademia e il cinema me lo immaginavo diverso».
Come se lo immaginava?
«Hollywoodiano. Del cinema avevo un’immagine molto romantica. Lì andavano tutti di fretta, fu un risveglio brusco».
La sua seconda prova fu “Miele”, l’esordio alla regia di Valeria Golino.
«Avevo un piccolo ruolo, ma fu un’esperienza meravigliosa e imparai tanto. Alla fine tagliarono gran parte delle mie pose, ma Golino mi spiegò con grande dolcezza il perché e quando vidi il film ne capii perfettamente le ragioni. Io ero alle prime armi e Valeria mi dava dei compitini da svolgere: “Mentre parli fai tanto altro e muoviti perché il fare è più importante del dire”. Erano lampi importanti, suggerimenti che poi ho messo nel mio bagaglio. Anche se in Miele appaio per due minuti, quei due minuti sono stati importantissimi».
Uno dei suoi mentori, Carlo Cecchi, sostiene che la vita vera è così noiosa e deludente che l’attore non vede l’ora di trovarsi sempre in scena.
«Carlo la pensa proprio così e a forza di osservarlo questo sentimento me l’aveva trasmesso. Lo capivo. Lo provavo».
Dicono che Cecchi abbia un carattere duro.
«Può apparire prepotente, ma la sua è una partita con sé stesso e con la verità. Se è crudele è perché sente la falsità, se è severo è perché sa che manierismo, ripetizione e routine, soprattutto a teatro, rappresentano la morte».
Cos’è un maestro?
«Uno da cui prendere le cose che ti servono avendo la lucidità di lasciare per strada le altre. Non è necessario che l’allievo cresca e si formi a immagine e somiglianza del suo maestro. Non è necessario, non è utile e forse non è neanche giusto».
Secondo lei essere attori richiede una sorta di vocazione?
«Secondo me sì. Si subiscono delusioni e si prendono bastonate che è impossibile digerire se non hai la vocazione. Ci sono momenti faticosi e spesso sono più frequenti di quelli felici. Allora perché uno resta e non manda tutto all’aria? È masochismo? Forse in parte lo è anche, però dall’altra parte pulsa quella sensazione di essere in scena, vivi, nudi e impudichi. C’è il qui e ora. È difficile da spiegare, ma so che a tutto quello non riuscirei a rinunciare».
«Recitando si scende/ giù sul fondo». Il verso è di Paolo Conte.
«Un bel verso. Si scende nei luoghi in cui nella vita non andresti mai. Si scende dove tutto è più complicato e dove tutto, tranne la morte, è più vero e a volte ha persino più forza che nella vita reale».
«Un attore perfettamente sano è un paradosso»: la frase è di Vittorio Gassman.
«Non possiamo essere sani, da qualche parte abbiamo delle storture e in scena possiamo portare a galla tutto quello che nella vita ci vergogniamo di far emergere a partire dalle ombre più cupe e sgradevoli. E questo non solo non è sano, ma qualche scoria la lascia».
È un quadro poco rassicurante.
«Me ne rendo conto. Certo, potremmo sostenere che nella vita non siamo così, ma non è vero neanche quello. Possiamo raggiungere una tranquillità forse momentanea, ma poi arriva un copione che ti trascina altrove, nella vita di qualcun altro e allora i demoni prendono nuovamente il sopravvento. Da certi luoghi dovresti stare alla larga, sarebbe saggio. E invece sono esattamente i posti in cui un attore vuole andare. Ci va senza armatura, ma con un cuore enorme e la temperatura alta».
È bello avere una febbre?
«Per me è bellissimo avere la stessa febbre e la stessa passione che avevo all’inizio. Il tutto o niente, la scommessa assoluta, il credere veramente in qualcosa».
Cosa spera Barbara Ronchi?
«Di non diventare mai una mestierante. E di continuare ancora a sognare».
A novant’anni si vede sul palco?
«A novant’anni sarà bello avere del tempo a disposizione per non fare proprio niente».