Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  maggio 10 Sabato calendario

Finardi: il futuro è degli uomini buoni

Sotto il cappello, Eugenio, il ragazzo timido e ribelle che a 22 anni cantava la pasoliniana Caramba, in fondo è rimasto sempre lo stesso. Anche il capello lungo, da tempo bianco, legato da una coda e la barba ascetica alla Tiziano Terzani, fanno di Eugenio Finardi un pezzo unico del nostro cantautorato. Un Extraterrestre, titolo di uno dei suoi brani più celebri che intona, improvvisando un rap frenetico: «“La vita nell’era spaziale non è niente male. Vivere sotto un cielo popolato di angeli e di satelliti artificiali””. E poi il mio ritornello “Extraterrestre portami via…” è diventata un rap sul serio, L’era spaziale di Jovanotti». L’era delle sue canzoni è iniziata nel 1975, l’anno degli scontri di piazza, dell’omicidio di Pier Paolo Pasolini e dei “martiri” dell’eversione. «Sono giorni che non faccio che pensare a Ramelli (morto il 29 aprile del ‘75) a Fausto e Iaio (assassinati nel ‘78), dei 18enni che avevano dei sogni e delle idee e cinquant’anni fa sono finiti ammazzati, vittime innocenti dell’ideologia. Da padre, piango loro e quei ragazzi di oggi che spesso vengono uccisi per motivi futili». Sono passati cinquant’anni anche dal primo album Non gettate alcun oggetto dal finestrino. («prodotto dalla Cramps del mio vero mentore Gianni Sassi e da quel genialoide di Alberto Camerini che ha “171” di quoziente intellettivo») e il gatto e la volpe della discografia odierna hanno avuto la spudoratezza di chiudergli la porta in faccia. «Mi hanno detto: “Non firmiamo artisti senior”. Perciò, oggi sono qui in veste di discografico di me stesso. Sono stato una delle prime scoperte di Mara Maionchi, di cui non si fa gloria per via del mio successo commerciale limitato – sorride lisciandosi la barba –. Del resto ho fatto la mia scelta: una vita da musicista che ho assaporato a pieno quando tre anni fa ho registrato l’album Euphonia Suite.
Ma più dei 20 dischi, compreso quest’ultimo, Tutto (11 inediti e il “Tutto Tour -’75-’25” che parte il 16 maggio da Fiorano Modenese), vado fiero dei tanti musicisti che ho scoperto e lanciato, come Walter Calloni, Mark Harris... Pino Daniele e Ligabue aprivano i miei concerti. Alberto Camerini è ancora il mio migliore amico geniale». L’altro suo amico geniale è stato Franco Battiato di cui gli ricordiamo, con tenera nostalgia per il Maestro di Milo, l’applauso «da spettatore di musica contemporanea» che gli tributò alla fine del suo concerto omaggio al cantautore russo Vladimir Vysocki. «Me la ricordo bene quella serata milanese all’Elfo Puccini, perché Franco prima venne dietro al palco a sistemarmi i vestiti, poi è salito di nuovo al termine del concerto per dirmi che aveva apprezzato molto. Battiato l’ho incontrato la prima volta nel ’72 nello studio di Sassi alla Cramps dove mi portò l’altro mio punto di riferimento costante, il grande Demetrio Stratos. Franco era sotto contratto della Bla Bla Records e sotto pseudonimo suonò le tastiere nel mio primo disco. Così come io ho vissuto da dietro le quinte la registrazione del suo album di svolta, L’era del cinghiale bianco. Condividevamo la radice classica, la musica barocca, la passione per Schönberg e quella tecnica di scrittura espressionista che ho conservato fino ad oggi e che genera sempre un pensiero. Ma Franco guardava ad Oriente da esoterico senza il minimo accenno di blue note, io invece avevo il rock e il blues nel sangue e lo sguardo da ellenista esistenziale rivolto ad Occidente». Il saggio Eugenio con Tutto fin dal primo brano Futuro prosegue quel cammino da ellenista ed eterno “condannato alla musica”. «Da feto ero finito già sotto uno strumento. Per via paterna erano tutti musicisti. Mio padre produceva nastri magnetici e al concerto di mia zia violinista morì la madre, mia nonna, così papà da allora a teatro ascoltava la musica stando sempre in piedi – sorride divertito al ricordo –. Mia madre americana, ipovedente, è stata una cantante lirica, maestra di interpretazione e una apprezzata vocal coach, perciò io sono nato cantante come il figlio di Maldini è nato calciatore». Di padre in figlio/a, che è anche uno dei temi portanti della narrazione di Tutto. Elettra, affetta dalla sindrome di Down quando nacque, nel 1982, gli ispirò una delle sue canzoni iconiche, Un amore diverso.
Ora in Tutto parla da genitore a genitore ne La battaglia e duetta in Francesca sogna con l’altra figlia Francesca, in arte Pixel. «Francesca Beatrice, (virgola) Pixel, così l’abbiamo registrata all’anagrafe e per fortuna la virgola altrimenti Pixel finiva nel suo codice fiscale. La battaglia è una canzone che ho notato commuove i padri. La battaglia con i figli è un mistero e riesci a comprenderlo solo quando loro spiccano il volo e diventano indipendenti. Nel frattempo che svuoti un vaso e ne riempi un altro si commettono degli errori... Purtroppo tanti genitori dicono troppo ai propri figli e così nascono i sensi di colpa, quel loro sentirsi responsabili delle emozioni e dei problemi degli adulti. Con Elettra questo errore non l’ho fatto e lei oggi è una donna di 42 anni che vive bene in una comunità dove ha relazioni, affetto, certezze, rispetto e dignità. Quando penso a lei mi dico, qui è tutto a posto». Armonia che si respira ne La mano di uno che sa in cui canta «in una notte di metà agosto ho visto Nina volare». Chiaro rimando alla memoria di Fabrizio De Andrè: terzo punto di riferimento del suo cammino artistico?. «In quella canzone la memoria è più quella di una certa Genova che vive dentro di me. Comunque, sempre nel ’75, assieme a Lucio Fabbri aprivo i concerti del tour di Fabrizio, Storia di un impiegato. Per me allora, ventenne anima rock e ribelle De Andrè era troppo antico con la sua Marinella. Ma c’è sempre stata grande stima reciproca e il mio modo di suonare aveva colpito suo figlio Cristiano che a 14 anni una sera scappò di casa e venne a suonare alla mia porta dicendomi: “Voglio venire ad abitare con te” – sorride ripensandoci –. Io e Mauro Pagani siamo gli zii di Cristiano De Andrè che possiede un talento e un’intelligenza musicale incredibile, abbiamo fatto anche un paio di dischi insieme» «Quando ero bimbo il mondo era un paradiso. Si vedevano ancora le Mondine trapiantare riso», canta Finardi in Pentitevi che con Onde di probabilità, Massiccio attacco di panico e La facoltà dello stupore sembra proseguire quella ricerca di
Nuovo umanesimo: brano dell’album Sessanta, il cui testo anticipava il discorso di papa Francesco che ammoniva quell’umanità di “adoratori dei vitelli d’oro”. «Ero stato invitato al Giubileo degli artisti, avevo già in tasca il biglietto del treno per Roma e finalmente avrei conosciuto personalmente papa Francesco, ma poi si è ammalato… È un grande vuoto quello che ha lasciato papa Bergoglio ora vediamo cosa farà papa Leone XIV... Quelle quattro canzoni, assieme a La mano di uno che sa, rappresentano un po’ la mia necessità di una mistica laica. Il nuovo umanesimo è incentrato sull’amore che è una cosa su cui mi interrogo da sempre, da molto prima che scrivessi La forza dell’amore.
Ma oggi mi chiedo, l’amore cos’è: possesso, gelosia, violenza, femminicidi? Se l’amore per i figli è lasciarli liberi di scegliere, allora penso debba essere così anche per i compagni e le compagne. Il grande problema oggi è l’inflazione di esistenze su questo pianeta. Quando sono nato eravamo 2 miliardi e mezzo di persone, oggi siamo in 8 miliardi. Troppi. La legge dell’economia, come della fisica, reagisce a questo tanto in eccesso abbassando il valore delle singole esistenze e così viviamo in un tempo in cui la vita umana sembra non avere più valore. Il pianeta sta andando a rotoli molto più in fretta di quello che pensavamo». Siamo ancora prigionieri dell’era de La caccia ai lupi cantata da Vysockij. «Il suo lupo anarchico si salva saltando le bandierine, le trappole messe dai cacciatori. Il messaggio che ho fatto mio è: trovare il punto estremo e spostare continuamente l’orizzonte. Il conflitto Russia-Ucraina, ma anche quello israeliano-palestinese ci dicono che homo homini lupus è il mestiere dei potenti che agiscono essenzialmente per colpire i più deboli. Il nostro ruolo di uomini civili, di uomini di pace, è porre fine a quell’istinto animale e credere sempre in un uomo che non debba mai