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 2025  maggio 10 Sabato calendario

Perché è sempre più difficile formare e trovare infermieri

La qualità dell’assistenza di cui per decenni hanno goduto gli italiani non è certo estranea alla longevità che caratterizza il Bel Paese. L’invecchiamento della popolazione porta però con sé una crescita del fabbisogno di cura che rischia di aggravare la crisi del nostro sistema sanitario. Tra 15 anni, gli attuali 14,3 milioni di ultra 65enni diventeranno 18,5, e i 4,5 milioni di ultra 80enni diventeranno 5,8. E, sebbene l’aspettativa di vita in buona salute sia di 4,8 anni superiore alla media europea, si stima che, degli oltre 20 anni che un 65enne ha mediamente davanti a sé, più della metà potrebbero essere caratterizzati da malattie croniche e disabilità. In questo scenario, è inevitabile attendersi una crescita della domanda di prestazioni infermieristiche che già oggi si scontra con una forte carenza di personale. Con 6,6 infermieri per 1000 abitanti, l’Italia si colloca sotto la media Ue di 8,4, mentre il fabbisogno inevaso è stimato tra i 63mila e i 220mila infermieri necessari per raggiungere i valori di Francia, Germania e Spagna. Pur auspicando di frenare l’emorragia di infermieri che stanno abbandonando il Ssn, il 40% del personale in attività raggiungerà l’età della pensione entro i prossimi 15 anni. La sfida di garantire la loro sostituzione resta tutta aperta: secondo i sistemi di monitoraggio, in Italia meno dell’1% dei giovani è propenso a scegliere questa professione, tant’è che i corsi di laurea in infermieristica faticano a coprire i posti disponibili. Tutto ciò spiega l’interesse verso la possibilità di reclutare infermieri all’estero, tema di uno studio di Fondazione Ismu. Tale opzione deve innanzitutto confrontarsi con un problema che non è soltanto italiano. Solo nei Paesi UE, il deficit di infermieri potrebbe arrivare nel 2030 a 2,3 milioni. Alle prese con la difficoltà nel garantire il ricambio generazionale degli staff e con diffusi fenomeni di insoddisfazione e burnout, le nazioni europee sono però tra quelle privilegiate nel quadro globale: l’89% delle carenze infermieristiche è infatti concentrato in Africa, sud-est asiatico e Mediterraneo orientale. Il rischio, come denunciato dall’International Council of Nurses, è che la mobilità internazionale degli infermieri accentui le sperequazioni esistenti, allontanandoci da uno dei traguardi dell’Agenda 2030: garantire salute e benessere per tutti e a tutte le età. A livello mondiale, ben 1 infermiera/e su 8 lavora al di fuori del Paese di nascita o in cui ha conseguito il diploma. Per far fronte alle carenze di personale e prepararsi alla transizione demografica, molti Stati hanno lanciato programmi di reclutamento all’estero. Mentre si erigono barriere fisiche e legali per arrestare l’immigrazione “indesiderata”, l’arrivo di infermieri è dunque fortemente incoraggiato: la Germania, ad es., ha aperto in diversi Paesi (tra cui l’Italia) centri di consulenza gratuiti per intercettare i possibili candidati. Al di là del grado di successo di queste iniziative, numerose sono le criticità emerse. Esse riguardano, da un lato, le barriere linguistiche e la distanza culturale che si riverberano nella pratica infermieristica; dall’altro lato, la percezione, da parte degli infermieri immigrati, di essere discriminati rispetto ai colleghi autoctoni, insufficientemente sostenuti nel gestire lo shock culturale e le difficoltà del trasferimento, sottovalutati dai superiori e dagli stessi pazienti. Ciò sembra valere soprattutto in quei contesti – come il Giappone, ma non solo– che ancora non hanno “metabolizzato” la trasformazione multietnica della società, restituendo agli immigrati la sensazione di essere degli outsider nei luoghi di vita e di lavoro.
Per tali ragioni, e per non aggravare la dipendenza dal personale immigrato, sta crescendo la consapevolezza di come il reclutamento all’estero non possa essere “la” soluzione a uno dei più gravi problemi dei sistemi sanitari contemporanei. A maggior ragione se si considera come essa possa comportare il drenaggio di risorse preziose dai Paesi più poveri. Fin dal 2010, l’Oms ha adottato un codice per il reclutamento di personale sanitario, con l’intento di scoraggiare la migrazione dai Paesi più vulnerabili. La migrazione infermieristica avviene però spesso attraverso pratiche “poco etiche” e fomentate dalla migration industry: sia nei Paesi di destinazione, dove sono prolificate agenzie private che eludono limiti e raccomandazioni, sia in quelli d’origine: nelle Filippine, ad es., ai tirocinanti interessati a maturare l’esperienza richiesta per emigrare è addirittura imposto di pagare una “retta” agli ospedali che li ospitano. A ll’interno di questa competizione globale, l’Italia è al contempo Paese d’origine degli infermieri che scelgono di trasferirsi all’estero (circa 50mila dall’inizio del millennio, ai quali vanno aggiunti i numerosi transfrontalieri) e Paese di destinazione. Sono 23.764 gli infermieri stranieri censiti nel 2022; molti di più se si conteggiano anche coloro (almeno 12mila secondo la Fnopi) che sono stati immessi nel sistema grazie alle norme transitorie (più volte reiterate) approvate durante la pandemia e a sostegno dei profughi ucraini. Tali disposizioni, consentendo l’esercizio della professione anche a chi non possiede i requisiti previsti dalla legge (l’equipollenza del diploma e l’iscrizione all’albo), hanno incoraggiato una immigrazione al di fuori di una reale regia istituzionale, grazie anche all’attivismo di agenzie private. Tutto ciò ha generato una situazione paradossale: insieme all’esigenza che tutti gli infermieri in attività passino attraverso una verifica delle loro competenze e del loro profilo deontologico, si segnala l’assoluta incertezza che aleggia sul futuro di questi infermieri di “serie B”, inseriti grazie a norme transitorie ma divenuti essenziali per le strutture in cui lavorano.
C ostruire una via d’uscita equa e sostenibile a questa situazione è una condizio-ne sine qua non per il passaggio a una fase più matura della governance della migrazione infermieristica. Ulteriori passi dovranno essere l’istituzionalizzazione di pratiche di reclutamento saldamente ancorate a principi etici e solidaristici, capaci di garantire una migrazione informata e consapevole, inquadrate in forme di cooperazione sanitaria e iniziative per il rafforzamento dei sistemi sanitari dei Paesi d’origine e la formazione di giovani infermieri. Ciò premesso, occorre interrogarsi sul posizionamento dell’Italia in rapporto alle altre possibili mete della migrazione infermieristica. A livello normativo, fin dal 2002 gli ingressi di infermieri sono stati liberalizzati, ossia affrancati dalle quote in genere previste per i migranti economici. Il riconoscimento del titolo di studio e l’iscrizione all’ordine degli infermieri rappresentano però un ostacolo non facile da superare, anche a causa della mancanza di programmi di supporto per prepararsi alle prove e dei costi della procedura. Ma almeno altrettanto rilevanti delle barriere legali sono le condizioni di lavoro e salariali. Gli stipendi degli infermieri, sia pure in crescita, sono tra i più bassi del mondo occidentale, tanto da costituire più un incentivo all’emigrazione che una leva attrattiva. A ciò si aggiungono turni e orari particolarmente gravosi, complici le carenze di organico che impongono il ricorso sistematico a straordinari e riducono il tempo che è possibile dedicare alla supervisione dei neo-assunti. O ltre che riflettere i problemi che oggi investono la professione infermieristica, i percorsi degli infermieri immigrati scontano le arretratezze sul fronte di un approccio realmente inclusivo delle risorse umane. I lavoratori d’origine straniera avvertono come i pregiudizi nei loro confronti compromettano il principio delle pari opportunità e influiscano sul benessere e la motivazione; denunciano l’assenza di infermieri con background migratorio nei ruoli di responsabilità; segnalano la scarsa consapevolezza per il “valore aggiunto” che essi portano nei luoghi di lavoro, grazie alle competenze linguistiche e interculturali ma anche alle sensibilità acquisite in contesti in cui la dimensione relazionale ha ancor più rilevanza di quella tecnica. Rendendo ancor più evidente la necessità di approcci alla gestione del personale infermieristico in grado di rispondere alle attese di ascolto e riconoscimento che sempre più influenzano le scelte formative e professionali.