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 2025  maggio 09 Venerdì calendario

Il taccuino e la Storia

La prima cosa che colpisce non è il fatto – storicamente importantissimo – che sia stato eletto il primo Papa nordamericano. Né che abbia scelto un nome all’apparenza desueto, lontano nel tempo, in realtà significativo: Leone, il nome del primo Papa a riconciliare, con la Rerum Novarum, la cristianità con la modernità. E neanche l’insistenza sulla parola «pace», la pax christiana, che consiste nel costruire ponti: questo del resto significa Pontefice (che si dice così anche in inglese, Pontiff).
La prima cosa che colpisce di Robert Francis Prevost è il taccuino. Mai un Papa aveva letto dalla loggia un testo scritto, con il foglio che a tratti spuntava fuori. Non è una scelta che si spiega solo con le difficoltà linguistiche. Papa Leone parla bene l’italiano, perfettamente lo spagnolo – grazie alla sua lunga missione in Perù —, conosce il latino; infatti si è espresso in queste tre lingue, e non nella sua. Il taccuino gli serviva a essere preciso. A non sbagliare nulla, senza la necessità di farsi correggere, come disse Giovanni Paolo II conquistando gli italiani in un secondo.
A non improvvisare, come aveva fatto Francesco: «Buonasera, pregate per me...». A dire esattamente quello che aveva nella testa e nel cuore.
Non siamo ipocriti: non è vero che non sia importante il posto da cui il Papa viene. Certo, il Papa ha un ruolo universale, che è poi il significato della parola «cattolico». Però il fatto che Giovanni Paolo II fosse polacco influì sull’energia con cui affrontò il comunismo sovietico. Il fatto che Benedetto XVI fosse tedesco non fu estraneo al suo rigore teologico e filosofico. Il fatto che Francesco fosse argentino ha certo determinato la sua attenzione ai poveri e ai Paesi emergenti, e la sua critica all’Occidente. Ora viene un Papa che ha un piede nell’America del Nord, dove è nato e si è formato, e l’altro nell’America latina, che ha scelto per la sua missione pastorale. E ha due anni di esperienza nella curia romana, come prefetto del dicastero per i vescovi, un ruolo-chiave che ha fatto di lui uno dei tre cardinali ben noti a tutti i colleghi.

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Gli altri erano Tagle e Parolin, entrato in conclave da favorito, e non soltanto secondo i media italiani. Pizzaballa era troppo giovane, Zuppi fin troppo figlio di Francesco; ma Parolin sulla carta poteva mettere d’accordo sia i bergogliani sia i moderati, se non i conservatori. Non è accaduto, e se questo non può essere letto come una sconfitta della Chiesa italiana, certo impone una riflessione. Il Papa era italiano quando il Vaticano era uno degli staterelli in cui il nostro Paese era diviso. Pio IX non accettò mai la perdita del potere temporale. Fu proprio Leone XIII il primo ad affrontare la nuova condizione di leader spirituale, che nel Novecento ha molto ingrandito il ruolo del Pontefice, soprattutto dopo il Concilio Vaticano II. Il Papa polacco ha contribuito ad abbattere il Muro, il Papa tedesco ha vegliato sulla dottrina, il Papa argentino ha spalancato alla Chiesa un nuovo mondo. Il Papa nordamericano è chiamato a confermare questa apertura, conciliando la continuità con la tradizione.
Da qui la scelta di Leone. Un nome che da una parte segnala la persistenza di uno spirito progressista, dall’altra lo inquadra in una prospettiva più ampia, lo incardina nella storia della Chiesa. I fedeli in piazza San Pietro, dopo l’iniziale delusione – un cardinale straniero, un nome diverso da Francesco – l’hanno capito. E hanno colto fin da subito il tratto umano, riservato ma non trattenuto, di Papa Leone.
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Trump si è congratulato; ma Prevost non è certo il Papa di Trump, su X ad esempio criticò il vicepresidente Vance ricordandogli che l’amore di Dio non distingue tra familiari ed estranei, tra vicini e lontani; «Dio vi ama tutti», come ha ripetuto ieri. Le insinuazioni sull’assegno da 14 milioni di dollari staccato da Trump al Vaticano in occasione del funerale di Francesco sono ovviamente infondate. Certo, le casse della Santa Sede sono in rosso, e gli Stati Uniti – con la Germania – sono la grande potenza economica della cristianità. Prevost riconcilia la Chiesa con gli Usa, con cui Bergoglio aveva un pessimo rapporto. E uno dei suoi ponti lo costruirà con l’Europa: la sua famiglia ha radici italiane, spagnole e francesi, del resto lui parla pure francese e portoghese, lingue che nelle riunioni preconclave gli sono certo tornate utili. Un ponte, quello tra America ed Europa, che da oggi Trump avrà qualche problema in più a tagliare. Non è difficile intravedere, dietro una scelta così rapida (alla quarta votazione), il ruolo dell’episcopato americano, che già dodici anni fa si era mosso in modo fulmineo e coordinato su Bergoglio.
Prevost non sarà un nuovo Francesco. Non nel nome. Non nell’abbigliamento: ha ripristinato stola, mozzetta, rocchetto e croce d’oro, come Ratzinger. Non nel linguaggio, che fin dall’inizio non ha lasciato nulla all’improvvisazione. Ma non per questo riporterà indietro la storia della Chiesa.
Le sue parole di pace hanno richiamato alla memoria un altro Papa Leone, quello che secondo la tradizione fermò Attila e salvò l’Italia e l’Occidente; ma non con la spada, con la croce. Ancora una volta, le campane di San Pietro suonano per tutti noi, danno un senso universale alla capitale italiana, e irrompono nelle nostre piccole e brevi vite per ricordarci che veniamo da lontano, e lontano possiamo andare.