Corriere della Sera, 9 maggio 2025
Intervista a Elido Fazi
Dove va l’accento?
«Sulla E, mi chiamo Èlido, sulle tracce di mia nonna Elodia, sono di origini marchigiane».
Marchigiano di dove?
«Quintodecimo, Ascoli Piceno. Famiglia di negozianti, uno spiccato senso del commercio. All’università scelsi Economia, mi parve naturale».
Roma?
«Laurea a Roma, master a Manchester, poi ricercatore a Catania. Sono stato un economista vero, serio».
Com’era l’Inghilterra degli Anni Settanta?
«Qui in Italia si combatteva per la politica, lì c’era il campus, si leggevano poesie, si faceva festa, si faceva l’amore».
Si è perso la rivoluzione?
«Ma ho trovato Keats. La poesia: dall’economia ai versi per me fu un lampo».
Anche Ezra Pound era un economista.
«Non trovo discontinuità tra le due cose: sia la poesia che l’economia sono ricerca pura».
Nel 1982 lei torna in Italia. Per fare il poeta?
«No, mi assunsero alla Business International Corporation, poi fondai io una branca italiana, in sostanza una filiale dell’Economist».
Però frequentava i poeti a San Lorenzo, all’epoca la zona più «politica» di Roma.
«Gli amici di sempre, da Claudio Damiani a Emanuele Trevi. Serate, incontri, dibattiti. Una sera venne anche Moravia. Ma non ricordo nulla».
Per chi votava all’epoca?
«Forse ero ancora anarchico. Ma simpatizzante della sinistra, mi ero appassionato a Keynes e la mia tesi fu sulla redistribuzione del reddito».
E oggi per chi vota?
«Non voto. Non mi convince nessuno».
Oggi Keynes è fuori moda?
«Al contrario, a me pare che la globalizzazione sia in ritirata e da un pezzo anche».
I dazi di Trump sono un sintomo?
«Di più, un effetto. Il neoliberismo ha fallito, la globalizzazione ha deluso, come anche l’America. Quando Giuliano Ferrara scrisse che io avevo fatto i soldi con l’anti-americanismo aveva torto: non perché fossi critico verso gli Stati Uniti, anzi. Ma perché sosteneva che mi fossi arricchito».
Già, perché trent’anni fa lei ha fondato la Fazi Editore. Oggi può rispondere: è diventato ricco?
«Facendo l’editore indipendente? Non scherziamo. Però reggiamo, ci manteniamo sull’equilibrio magico dei sessanta libri l’anno, sul fiuto».
Nessuno avrebbe scommesso una lira su «Stoner». Con voi il libro di Williams è diventato un best seller.
«Incredibile. È tutta scrittura, zero trama. Ma le vie dell’editoria sono imprevedibili».
Così come «100 colpi di spazzola prima di andare a dormire»: quando uscì, nel 2003, Melissa P. era una sconosciuta, tiratura bassissima, aspettative zero.
«Sa che ha venduto quanto Umberto Eco? Tre milioni di copie, tradotto in cento Paesi. Pochi sanno che per noi doveva essere un libro per ragazzi».
Ma come!? Per i lettori attenti è una storia di fragilità adolescenziale, ma la maggior parte all’epoca ci vide un flusso di coscienza sul sesso e sulle fantasie erotiche.
«Pochi hanno capito quel romanzo e Melissa. Fatto sta che il passaparola, lo scandalo e il Maurizio Costanzo Show fecero il resto: long seller».
Melissa Panarello si era fidanzata con suo figlio Thomas. Perché finì?
«Mai saputo. Una sera vennero a cena a casa nostra e ci annunciarono che si volevano sposare. Qualche tempo dopo, mi telefonò Thomas dicendomi che si erano lasciati».
L’autore o l’autrice che ha pagato di più?
«Ci svenammo per Elizabeth Strout, centomila euro di anticipo e non vendette neanche tanto. Ma nulla in confronto ai 350 mila che demmo a Stephenie Meyer per uno dei libri della saga di Twilight: non basta azzeccare un best seller, poi devi pure mantenerlo».
Il successo che si è lasciato sfuggire?
«Il codice da Vinci. Andò così: noi pubblicavamo Gore Vidal, che poi divenne un caro amico. Il suo compagno, Howard, era ricoverato in ospedale. Io andavo a trovarlo con Gore tutti i giorni e una volta lo trovai intento a leggere un romanzone. Era il libro di Dan Brown in lingua originale, Mi disse: “Questo devi prenderlo assolutamente”. Ma non lo ascoltai. Peccato».
Con Fazi hanno esordito in tanti che poi hanno avuto successo.
«Antonio Manzini, per dire, oggi un re delle classifiche. Ma quando uscì con noi vendette poco e così non lo pubblicammo più. E dissi di no anche a Gianrico Carofiglio».
Carofiglio se la prese?
«Mi dicono che sulla parete del suo studio tiene ancora appesa la mia lettera di rifiuto».
Non se l’è «legata al dito», addirittura se l’è «appesa al muro».
«Posso mandargli un messaggio attraverso il Corriere?».
Certo.
«Gianrico, scusami! Ripensaci e vieni da noi (ride)».
Ma Carofiglio non è troppo di sinistra per lei?
«Noi non siamo né di destra, né di sinistra. Siamo anti-establishment, se proprio vogliamo trovare una definizione, siamo anti-sistema».
E non ha mai pensato di pubblicare i libri di Grillo?
«Un giorno mi invitò a pranzo. Disse che lui e il Movimento mi tenevano d’occhio, gli erano piaciuti alcuni nostri saggi critici nei confronti del sistema. Ma poi non se ne fece nulla. Anzi no, mi correggo».
Cioè?
«Assumemmo per sei mesi Alessandro Di Battista».
«Dibba» ha lavorato qui?
«Sì, il suo compito era di portare nuove idee, eventuali autori da pubblicare scovandoli in rete. Ma sei mesi dopo non avevamo nulla. Faceva proposte un po’ strampalate».
E a lei caddero le braccia. O l’accento?
«Una volta chiamai Beppe (Grillo, ndr) a presentare un libro. Peccato che non parlò del libro ma cominciò a prendersela con i giornalisti presenti».
I rischi dell’anti-sistema.
«Incrociare politica e editoria è rischioso. Per dire, io oggi non pubblicherei il romanzo di J.D. Vance perché è diventato il vice di Trump, ma Elegia americana è un bel libro».
Trump lo pubblicherebbe?
«No».
Uno che lei prenderebbe così, su due piedi?
«Oltre a Carofiglio? Forse Maurizio de Giovanni. Secondo me è molto bravo».
Una scrittrice che le piace?
«Nadia Terranova. Ha lavorato anche qui da noi per un periodo, come redattrice. Ma non immaginavo che volesse fare la scrittrice».
Come lo affila lei il fiuto dell’editore?
«Leggendo tanto e in lingua originale. È stato così che lanciammo alla grande le opere di John Fante. Lui era stato già tradotto, ma il successo in Italia lo ha raggiunto con noi».
Chi vincerà lo Strega?
«Non mi faccia parlare dello Strega».
Perché?
«Perché una volta osai dire che diventa difficile per un giurato leggere tutti i libri in gara e in tanti se la presero».
In sostanza lei ha detto quello che anni dopo avrebbe affermato Sangiuliano.
«Non ho mai detto che non li ho letti. Io li leggo eccome».
Per chi ha votato lei allo Strega? Un esempio.
«Per Sandro Veronesi. Uno degli scrittori che amo di più».
Tra i successi della Fazi c’è anche Boris Pahor.
«Che esordì a novant’anni. Mi ricordo che quando stava per compiere cento anni andai a trovarlo a Trieste. Mi fece girare per tutta la città: io ero distrutto, lui pareva un ragazzo».
Claudio Magris fece una memorabile prefazione al libro più bello di Pahor, «Necropoli».
«Volevo Magris a tutti i costi. Un giorno a Roma lo fermai e glielo chiesi. Fu gentile, ma fermo: “non prima della fine di dicembre”, dichiarò. Il libro usciva a gennaio. Bene, il suo scritto arrivò il 30 dicembre».
L’intelligenza artificiale cambierà l’editoria?
«Certe professioni possono essere a rischio – penso ai traduttori – ma dire che qualcosa sparirà pare eccessivo».
Ci sarà mai un ultimo libro nella storia umana?
«No, il libro è la tecnologia più antica che esista. Finirà solo se finirà la storia».