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 2025  maggio 09 Venerdì calendario

Trussardi: “La morte come amica: accettarla vuol dire sopravvivere”

Un libro sulla morte. È così che Gaia Trussardi, 45 anni, terzogenita di Nicola e parte di una delle famiglie simbolo del Made in Italy, fa il suo debutto da scrittrice. Cara morte, amica mia (Francesco Brioschi Editore), da ieri in libreria, tra riflessioni e ricordi tratta di uno degli ultimi temi tabù. Il perché lo spiega l’autrice nelle prime righe del volume: la morte la segue da anni. Nel 1999 si è portata via suo padre, nel 2003 il fratello maggiore Francesco – entrambi in incidenti d’auto – segnando anche la sua vita.
“Sei arrivata e nessuno, nessuno era pronto”, scrive della scomparsa di Nicola. “Neppure i medici dell’ospedale si erano arresi, anche se già sapevano. Ci guardavano con gli occhi colmi di pena: per noi vittime inconsapevoli, ma soprattutto per loro stessi, per l’impotenza che li schiacciava”.
Come si scrive della morte?
«Trattandone i due volti: la mancanza della persona, e il concetto in sé. Volevo condividere la mia esperienza, e magari “aiutare” chi non riesce a tradurre in parole quello che sente. La nostra società esclude l’idea della fine; e invece, in senso antropologico, ilsuo culto serve ad accettarla come una fase della vita».
Subito dopo la scomparsa di suo padre, è scappata a Londra, dove studiava, per sfuggirle.
«Ero sotto choc, non riuscivo ad affrontare l’enormità di ciò che mi stava accadendo, ho agito d’istinto.
Solo dopo, grazie a due mie amiche, ho iniziato una terapia per affrontare la perdita».
Scrive di essere scappata “dagli armadi dove c’era ancora il suo odore”. Li ha poi riaperti?
«Dopo tanto. Più di tre anni».
Quattro anni dopo, quando è mancato suo fratello Francesco, è stata lei a vegliare su sua madre.
«Avevo capito che, prima del mio dolore di sorella, c’era il suo di madre. È stato un momento illuminante, in cui ho intuito che l’esistenza non finisce con la morte.
Un lampo che allora non ho colto: cercavo solo di sopravvivere».
Perché la morte è “cara amica” e “sorella siamese”?
«Lo scopo del libro è imparare a non farsi sopraffare dalla sua paura e da lì la catarsi. La paura t’inchioda».
Definisce il marchio di famiglia “il figlio prediletto”. Lo era davvero?
«Era parte della nostra identità: una presenza costante, forte. In piùsiamo bergamaschi: il senso del dovere ci appartiene. Che, unito all’educazione cattolica, ci ha dotato di un innato senso di colpa per il “non essere” o il “non fare”.
Vedere la dedizione al lavoro dei miei mi ha fatto bene, ma quel continuo spingere all’eccellenza rischia di creare un’enorme pressione».
Come la sua prima esibizione da cantante di una band, a 18 anni.
«Era estate, mio padre venne a vedermi, ma se ne andò dopo che steccai il primo brano. Mi vergognavo come una ladra, ma non mi arresi: lo ripetei, e fui brava.
Ma lui non era più lì: voleva vedermi brillare, concepiva solo la perfezione.
Un atteggiamento tipico dei genitori negli anni Ottanta, quando il fallimento non era contemplato. Tra aspettative eccessive e insicurezze di gioventù mi sono preclusa molte possibilità: preferivo non provarci nemmeno».
E lei che madre è?
«Una che parla tanto con i suoi figli (Nicola e Isabella, avuti con il primo marito Ricardo Rosen, ndr).Li guardo, chiedo sempre, senza ansie, “come va?”, “cos’hai”? Se mi rispondono niente, sto attenta a come lo dicono, perché può significare tanto. Sanno di potersi confidare con me, e ne sono felice».
Sentiva la pressione di essere una Trussardi?
«Fin dall’asilo: i bambini sono sensibili, lo capiscono se sono guardati diversamente. In più, credo che la mia intelligenza non fosse di tipo scolastico: oggi se ne parla di più, ma all’epoca ero quella “tanto carina”, che interrogata si bloccava e arrossiva. È stata una bella rivincita essere la migliore del mio corso di sociologia e antropologia all’università».
Scrive che non si sentiva in diritto di soffrire, in quanto privilegiata.
Come ha affrontato il dolore?
«Visto che il dolore ti fa perdere il controllo, il mio cervello ha deciso di stare male per qualcosa che potessi controllare: la fame. Stavo male, ma ero io a scegliere di avere fame. A un certo punto volevo curarmi, ma anche preservare i chili che avevo perso. Quando ci sei dentro, è un gran casino».
Come ha iniziato a scrivere?
«Con la musica, una mia grande passione. A 14 anni mio padre mi ha regalato una chitarra: ho imparato a suonarla da sola, e ho iniziato a scrivere le mie prime canzoni. Lo facevo per me, non ho mai cercato la validazione altrui. Poi sono passata alle poesie e ai testi brevi; in lockdown ho scritto sempre di più, e da lì il libro ha preso forma».
Tra il 2013 e il 2018 è stata anche direttrice creativa di Trussardi.
«Sono stata fortunata, allora la moda non era solo prodotto, ma anche contenuto. Guardavo tanto alle sottoculture, al modo in cui usano gli abiti per lanciare un messaggio: se un indumento rappresenta un pensiero assume anche valenza sociale, e diventa costume. Oggi è puro esercizio estetico, non ce la farei».
Suo marito Adriano Giannini (sposato nel 2019) che ne pensa?
«Temevo il suo giudizio, è un critico severo. L’ha trovato coraggioso.
Non è l’unico a dirlo, forse ho detto troppo».
È sempre stata tanto sincera?
«Da piccola, mia madre si arrabbiava perché raccontavo sempre tutto alle mie amiche. Ma io penso che, se non fai nulla di male, non dovresti mai nasconderti».