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 2025  maggio 09 Venerdì calendario

Intervista a Eugenio Finardi

“Che orgoglio orbitare tra Marte e Giove…”.
Non lei, Eugenio. Solo l’asteroide “79826 Finardi”. Chi glielo intitolò?
Degli astrofili veronesi. Ci sta: la mia passione per l’universo, Extraterrestre, Oltre gli anelli di Saturno. E ho scritto due canzoni sui viaggi del Voyager.
Sì, ma il suo nuovo, commovente album Tutto si apre con un pezzo, Futuro, dove dice: “Ormai s’è capito che/ non esistono gli extraterrestri/ che ci vengono a salvare”.
E proseguo: “Ormai la mia unica speranza è l’intelligenza artificiale”. Però quando invocavo l’extraterrestre sottintendevo che, ovunque tu sogni di scappare, non puoi sfuggire a te stesso. Il problema è cosa stiamo diventando: la vita biologica preparerà quella tecnologica. Tra 200 anni l’Ia sarà dentro i nostri corpi.
Lei guarda lontanissimo.
Noi vecchi possiamo sognare un futuro che non vedremo. Sono i giovani a vivere l’angoscia di cosa sarà, presto, questo pianeta morente.
Che raccontiamo ai figli di quando noi eravamo ragazzi? Come spieghi la battaglia coi polli congelati al Parco Lambro ’74?
Ne ho parlato con la mia Francesca, che ha 25 anni e collabora a questo disco. Tentando di illustrarle le assurdità di quei nostri anni. Fricchettoni, capelloni, strafatti. Le dico: eravamo integralisti come i vegani, e i nonni eccentrici dei vostri Coachella. Però è impossibile far comprendere perché alcuni si arruolassero nelle Brigate Rosse o nei Nar.
I sanguinari 70.
Un decennio con cui non abbiamo smesso di fare i conti. Riaprono le inchieste su Fausto e Iaio, ci si accapiglia su Ramelli. Dovremmo piangere per tutti quei ragazzi, indistintamente. Se non fossero stati assassinati avrebbero fatto in tempo a cambiare dieci volte idea, come tutti in Italia. Ma se guardi alle tragedie odierne, a chi ti spara perché sei di un’altra squadra o perché gli hai sporcato una scarpa, non trovo più un senso a nulla.
Una sera, sul palco a Padova, sentì sibilare sopra la testa le pallottole degli autonomi.
Erano fuori con le pistole e rivendicavano la musica gratis. Quelli dentro, che avevano pagato il biglietto, rispondevano lanciando sassi. Io in mezzo, come in Balla coi Lupi.
Non provai spavento, ma stupore: “Ora come la gestisco?”. Del resto ero uno del Pci, praticamente un reazionario.
Col sangue americano, per giunta.
Per parte di madre, cantante lirica: nel ’48 era venuta a Milano e si innamorò di mio padre. Nel 2010 era sul palco reale della Scala e io in scena. I nostri sogni si saldavano. In America c’ero stato all’università, quella era la mia cultura civica e giuridica. Restai subito deluso, non era per niente la terra dei liberi, come la idealizzavamo da qui. Figuriamoci oggi. L’America si è persa con le armi, il Fentanyl, le guerre sulle parole. Vai a fare la cameriera alle Hawaii per imparare l’inglese e ti arrestano come clandestino. Ho detto a mia figlia di rinunciare.
Oggi Trump, una volta il rock’n’roll.
Da mia nonna nel New Jersey vidi questo programma tv, Shindig: restai fulminato dai Rolling Stones di Satisfaction. Li evoco nell’album, “Cinque ragazzi controvento/ per segnare il nuovo tempo”. Dylan invece lo amo come autore, non la voce. Con una madre come la mia, se all’opera sento uno calante devo andare via.

Quindi, oltre che amico, era un fan di Demetrio Stratos.
Entrava in una stanza e con il suo carisma conquistava donne e uomini. Un re, un uomo dolcissimo. Collezionava bambole.

A nove anni lei incise un primo vinile: Palloncino rosso fuoco.
Ne conservo due copie. Una vita dopo, ancora mi infastidisce una piccola stonatura. Allora non c’era l’autotune, che oggi salva tanti asini. Ricordo l’incisione, all’Istituto dei Ciechi, al clavicembalo una ragazza che sarebbe divenuta una suprema studiosa di Scarlatti.
Fece i cori su Montagne Verdi di Marcella?
Io, Marco Ferradini e Paki dei Nuovi Angeli. In due turni registravamo interi cantagiri, o un album in spagnolo di Gianni Nazzaro.
Lucio Dalla suonò il clarinetto per lei, in più occasioni.
Veniva al Castello di Carimate, si infilava la cuffia, il parrucchino gli si spostava. Glielo facevano notare: “Ma che mi frega, posso pure avere la testa storta ogni tanto, no?”.

Ivan Graziani.
Lo conobbi alla Numero Uno di Battisti e Mogol. Volle condividere con me un ingaggio in un ristorante. Diecimila lire a testa.

In Tutto omaggia De André e Fossati.
Come se vedessi le luci di Genova riflesse su una nuvola e la Nina che continua a volare in cielo sull’altalena. Ho 73 anni, il mio è un flusso di coscienza.
Perché dice che questo disco sarà l’ultimo?
Per scaramanzia. È stato un parto, ho perso dieci chili. Il precedente era stato Fibrillante, nel 2014. Di questo passo torno a 84 anni. Se l’acufene jazz mi lascia in pace.