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 2024  marzo 03 Domenica calendario

Intervista al regista Michael Lockshin - su "Il maestro e Margherita"

«A cosa servirebbe il bene, se non ci fosse il male?», ha scritto Michail Bulgakov nel suo capolavoro Il maestro e Margherita. E, mentre il male romanzesco era l’incarnazione terrena del lavoro diabolico, quello pratico contro il quale Bulgakov doveva scontrarsi ogni giorno era l’opera del regime stalinista. L’oscurantismo tenebroso che costringeva scrittori e artisti a una vita di anonimato e latitanza, per non essere sorpresi a opporsi alla dittatura. «Cosa sarebbe del mondo se perdesse tutta l’ombra?», si domandava lo scrittore, che a quell’ombra ormai era abituato. Un’ombra che, in Russia, è ancora tristemente attuale.

Il regista Michael Lockshin, nato negli Stati Uniti da genitori russi, ha passato gran parte della sua vita tra due Paesi, godendo del privilegio, o forse della dannazione, di poter osservare la propria patria da fuori, attraverso un declino politico prima ipotizzato, poi più concreto e infine conclamato. La condizione della Russia contemporanea torna spesso nel suo lavoro: non a caso, ma sorprendentemente, il suo ultimo film - una trasposizione proprio del capolavoro di Bulgakov - incarna, passando per la condizione dello scrittore sotto Stalin, una vena di critica sociale disincantata che ha provocato la reazione degli spettatori russi che hanno letteralmente invaso le sale dall’uscita della pellicola, a metà febbraio.

Lockshin è un oppositore di Putin, non ne fa alcun mistero. E, come molti della sua specie, vive lontano da Mosca, dove ha studiato e passato molta della sua giovinezza. Che lo voglia o meno, la sua versione di Il maestro e Margherita è diventato un manifesto: della resistenza giusta per alcuni e della sfacciataggine di un’opposizione ingiusta per altri.

Ha paura?
«Non è facile rispondere, al momento. Nelle ultime settimane ho provato talmente tante sensazioni diverse, che “avere paura” è limitativo».

Provo a semplificare: teme per se stesso?
«Sì, tutti i giorni. Specialmente dopo la morte di Alexey Navalny, qualunque russo dia segnali di volersi opporre al regime di Putin deve temere per sé stesso».

Pur essendo lontano dalla Russia?
«Come non esistono limiti morali, non ci sono limiti geografici che possano arginare lo stato precario nel quale ci troviamo. Naturalmente ho più paura per tutti coloro che sono rimasti in Russia che per me. I russi che hanno lavorato al film, i distributori, chi si occupa della comunicazione da quando è uscito. Abbiamo ricevuto tutti minacce molto specifiche».

Di che tipo?
«Minacce di morte. O la minaccia di essere arrestati, che di questi tempi equivale a una minaccia di morte».

Qual è stato il momento peggiore?
«I giorni appena successivi all’uscita del film nelle sale. Sono stati giorni strani, in realtà, perché siamo stati investiti contemporaneamente da un’ondata di affetto e da un’ondata di odio che non ci saremmo aspettati. Se devo essere sincero, non mi sarei aspettato niente di quello che è successo ultimamente».

Non pensava di fare qualcosa di rivoluzionario?
«E non lo penso nemmeno ora. Penso di aver fatto un film, del quale sono orgoglioso, tratto da uno dei libri più universalmente amati di tutti i tempi. Questa è la prima cosa che mi viene in mente. Poi, riflettendoci, capisco il perché di tutto ciò che è venuto dopo. Dell’affetto e anche dell’odio».

E questo non la inorgoglisce?
«Non proprio. Non per me, per lo meno. Mi fa pensare che ci sia qualcosa che travalica l’arte e che arriva direttamente al cuore delle persone e che se così tanti spettatori, giovani soprattutto, hanno letto nella mia trasposizione di Il maestro e Margherita più di una semplice prova cinematografica, allora forse il mio Paese non è così perduto come sembra».

Non voleva fare politica, insomma…
«Esatto. Però mi sono scontrato con il vecchio assunto che fare arte sia sempre fare politica. Il fatto è che quando ho cominciato a lavorare al film, la situazione era un po’ diversa».

In che senso?
«Era il 2019, l’invasione dell’Ucraina non era ancora avvenuta. Non c’era ancora nemmeno stata la pandemia - durante la quale abbiamo scritto il film - e, benché fossimo ben coscienti di poggiare su una situazione geopolitica instabile, non avevamo la percezione esatta di ciò che stava per avvenire. Volevamo fare un film che desse una lettura del libro in chiave storica, che accanto alle vicende fantastiche proponesse la condizione di uno scrittore la cui vita è oppressa dal regime».

Che è politica, infondo…
«È vero. Ma non avevo idea che sarebbe diventato qualcosa di così tanto attuale. Speravo che potesse fornire qualche spunto, ma mai avrei pensato che rientrasse così perfettamente nell’allegoria del reale».

Putin c’era già, ci ha pensato?
«Naturalmente sì. E c’era già anche la repressione, la brutalità, tutti i motivi che hanno spinto migliaia di artisti, scrittori e registi russi a lasciare il Paese».

Torniamo alla paura…
«O all’impossibilità di accettare di vivere in una nazione che non ammette l’opportunità di un pensiero indipendente».

Pensava che il film sarebbe uscito in Russia?
«No. Proprio no. Ci speravo, ma non ci contavo per niente. Il processo di distribuzione è stato molto particolare: normalmente si fanno dei focus group, si organizzano proiezioni anticipate per testare le reazioni del pubblico e preparare il miglior piano distributivo possibile. In questo caso non è stato fatto niente del genere».

Come mai?
«Penso che non volessero alimentare l’aspettativa. Da una parte volevano farlo uscire per non dare l’idea di censurarlo, dall’altra non volevano che diventasse una questione politica. È uscito in sala quasi senza alcun preavviso. Fino al giorno dell’uscita ho pensato che non sarebbe successo».

Potevano semplicemente bloccarlo…
«È vero. In questo momento in Russia ci sono centinaia di progetti artistici, cinematografici e letterari che vengono tenuti censurati, ostacolati, fermati con qualsiasi mezzo possibile per evitare che esprimano un sentimento contrario al regime. Nel mio caso, penso che non volessero cancellare tanto platealmente il lavoro di un autore popolare e amato come Michail Bulgakov. Cancellare un classico sarebbe come cancellare la Storia».

Pratica stranamente diffusa tra gli oppositori fuori dalla Russia…
«Le risposte spontanee sono sempre strane, sono di cuore più che di ragionamento e a volte fanno vittime innocenti. Di certo viviamo un’epoca drammatica e più il tempo passa, più la situazione si complica».

Pensa che un film possa fare la differenza?
«Se un’opera fa pensare e ha la fortuna di arrivare alle persone senza essere contraffatta, allora certamente qualcosa può fare. Non so se sia una soluzione o meno, ma magari può risolvere qualche interrogativo, animare qualche spirito e spingere a una presa di posizione».

Sono tanti gli artisti russi che si stanno dando da fare…
«È vero, ma sono pochi quelli rimasti in Russia. Chi come me ha il privilegio di potersi esprimere liberamente da fuori, dovrebbe farlo. È lo scopo del nostro lavoro: provare a fare qualcosa di bello, ma che possa anche contribuire a rendere il mondo un posto migliore. Sono piuttosto pessimista riguardo la situazione in Russia, temo che non possa che peggiorare a livello politico. Ma la politica non è impermeabile all’arte».

La teme?
«A volte la ignora, che per la politica può essere un clamoroso passo falso».