Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  maggio 08 Giovedì calendario

Vittime italiane di terrorismo all’estero, la strada a ostacoli per i risarcimenti: «Ricorsi, anni d’attesa, cifre irrisorie. E a volte tocca persino restituirli»

Una calda mattina. Lunga e diritta correva la strada per l’aeroporto di Mogadiscio. L’ufficiale italiano, un maggiore, era quasi arrivato al quartier generale d’Eutm, la missione europea d’addestramento delle forze somale. L’esplosione fu potente. Il kamikaze si fece esplodere molto vicino al mezzo blindato. Il maggiore fu sbalzato. Ferito. Ricoverato. Rimpatriato. «Vittima d’un attentato terroristico», riconobbe il ministero della Difesa.
Sono passati dieci anni e l’ufficiale non s’è mai più ripreso: ha perso l’udito, ha dolori da trauma cervicale, danni permanenti alla mandibola. Uno pensa: sarà stato risarcito. Macché. Gli è stata riconosciuta un’invalidità al 2%. Non ha diritto a vitalizi. E per tutto questo, ha ricevuto dallo Stato solo 4mila euro.

«La ricerca della verità». «Il desiderio di giustizia». «La memoria condivisa». Quando arrivano il 9 maggio e la Giornata delle Vittime del terrorismo interno e internazionale (questa la formula ufficiale), tornano i fantasmi delle bombe senza colpevoli: «Una grande occasione persa», polemizza Daria Bonfietti, che rappresenta le famiglie della strage di Ustica, una giornata di manifestazioni senza «approfondimento e riflessione storica».
È giusto fare i conti con la Storia. Ma forse è bene farli anche coi soldi: per chi ha versato quel sangue, per i familiari su cui è caduto. Dalle prime bombe in Alto Adige nel 1961, compresi gl’italiani colpiti all’estero, le stagioni del terrore han fatto più di 700 morti e migliaia di feriti: nei tribunali, pendono ancora più di cento contenziosi giudiziari. Di persone che non hanno mai ricevuto un adeguato risarcimento, per quel che han passato.
A Nassiriya ci fu un carabiniere che il 12 novembre 2003 era nella caserma della missione Antica Babilonia e scampò alla strage, oggi ricordata da millemila cippi sparsi in ogni angolo d’Italia: gli toccò raccogliere quei corpi, soccorrere i sopravvissuti, sopravvivere lui stesso a problemi psichici e a uno stress da trauma (ptsd) che non lo fa più dormire. Ha perduto il 56% della capacità lavorativa, eppure ha impiegato una vita (e tre anni di processo) per avere i 150mila euro che gli spettavano. Gli è andata anche bene: «Il 90% di noi soffre di ptsd – spiega Roberto Della Rocca, ex gambizzato dalle Br e presidente dell’associazione Aviter -, ma ci sono molte Regioni, come la Lombardia, che ancora non rimborsano le cure psichiatriche».
Non basta esserci finiti in mezzo, perché la burocrazia certifichi una vittima d’attentato. «C’è la tendenza a non riconoscere o a riconoscere il meno possibile», dice l’avvocato Giovanni Carta, che segue molti di questi casi: «Dopo che uno è passato per una simile esperienza, deve aspettare molto tempo per avere una risposta dallo Stato. Capisco che la ragione sia dissuadere. Ma questo, ovviamente, ingenera delusione».
E qualche umiliazione: la famiglia di Valeria Solesin, la ricercatrice universitaria veneziana uccisa a Parigi nel massacro del Bataclan, s’è vista costretta a restituire al governo francese i 79mila euro che aveva ricevuto subito a titolo di parziale indennizzo. «Le regole Ue non erano molto chiare – racconta la mamma, Luciana Milani – e ci chiesero indietro i soldi, perché dissero che non si possono avere due volte, li avevamo già ricevuti dal governo italiano». Vero: i Solesin hanno avuto dall’Italia 180mila euro e un vitalizio, la legge è legge, ma stupisce che la Francia non abbia mai sborsato nulla, anzi si sia fatta rendere i soldi destinati alla vittima d’una strage compiuta sul suo territorio.
«Il problema principale – dice Della Rocca – è ottenere le coperture per gli attentati degli ultimi vent’anni, che sono stati commessi soprattutto all’estero. I parenti d’una vittima dell’attacco di Nizza, nel 2017, sono andati sette anni per tribunali. E questo, nonostante la Francia sia un Paese piuttosto collaborativo: in Gran Bretagna, non si spunta nulla. E anche in Germania ci son sempre difficoltà».
Divenne un caso Fabrizia Di Lorenzo, la ragazza di Sulmona ammazzata nel 2017 dal camion di un islamista lanciato sul mercatino natalizio di Berlino: i tedeschi all’inizio negarono ogni risarcimento, considerando l’uccisione poco più d’un incidente stradale, ma anche in Italia servirono ricorsi in tribunale per ottenere i benefici previsti dalla legge.
Ce n’è una, la 204 del 2006, molto innovativa, che fissa i risarcimenti a vittime civili e militari. Dopo quasi vent’anni, però, il Parlamento non ne ha mai approvato un decreto attuativo che permetterebbe di liquidare più rapidamente gl’indennizzi. E questo obbliga le famiglie ad attendere lunghissimi iter giudiziari: molti casi vengono trattati ancora come quelli dei militari vittime del dovere, mentre spesso occorre una sentenza che dichiari la matrice terroristica. Se poi c’è un aggravamento delle condizioni di salute, cosa che accade di frequente, poco o nulla è previsto.
Il fotoreporter Gabriele Micalizzi, che nel 2019 perse due falangi, l’udito e la vista dall’occhio destro, ancora adesso ha in corpo le schegge del razzo che i jihadisti dell’Isis gli spararono addosso in Siria. Dopo cinque anni d’istruttoria, s’è visto rigettare dal ministero dell’Interno la richiesta dei benefici. Motivo: il razzo lanciato dai terroristi «non costituisce reato di terrorismo… in quanto trattasi di fatti avvenuti in contesto di guerra».
Domanda: se uno s’assume il rischio di testimoniare da giornalista, o di servire da militare, è solo per questo escluso da ogni pretesa? «Vorrei capire perché le mie ferite valgono meno di quelle degli altri – commenta Micalizzi -. Ho fotografato la bandiera dell’Isis a cento metri da me. E davanti non avevo soldati d’un esercito regolare, ma cinquecento armati dello Stato islamico. Tagliagole. Gente che organizzava attacchi nelle città europee. Io seguo da anni le guerre dei jihadisti: se questo non è terrorismo, allora ditemi voi del ministero che cos’è».
Minimizzare, procrastinare, sopire. E quando si può, risparmiare. «L’Italia è anche meglio di altri Paesi – dice Della Rocca -, ma a volte c’è amarezza. È inutile che lo Stato presenzi ai funerali o commemori gli anniversari, se poi nega pochi soldi. Faccia lo Stato, casomai. E non costringa una vittima del terrorismo, che magari per lo Stato ha versato il sangue, a fargli anche causa».