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 2025  maggio 08 Giovedì calendario

Mosca, tra i reduci della Grande Guerra 80 anni dopo: “Vinceremo ancora”

C’era anche Ruslan Krivchenko, quel mattino di ottant’anni fa, a festeggiare in Piazza Rossa la vittoria sovietica sul Terzo Reich, proprio accanto alle legioni dell’Armata rossa reduci da Berlino che gettarono davanti al mausoleo di Lenin le bandiere naziste catturate. Allora imberbe decenne, era stato mobilitato in fretta come tutti i cadetti della scuola militare Suvorov di Kalinin, oggi Tver, fucina di generali.
«Arrivammo a Mosca dopo un mese di prove. Ci schierarono davanti San Basilio. Alla nostra sinistra c’erano i reduci con gli odiati vessilli calati a toccar terra, alla destra il Lobnoe Mesto, il “Luogo del Cranio” che si crede fosse un patibolo sotto gli Zar, ma dove allora per l’occasione era stata allestita una fontana. Pioveva e, in più, a bagnarci c’erano i zampilli d’acqua di questa fontana, ma non c’importava. Eravamo felici». Racconta, la bocca sdentata, lo sguardo azzurro dietro agli occhiali che si fa di nuovo vispo. «Eravamo felici di essere al fianco dei Vincitori e al cospetto di Iosif Stalin. Di vedere sfilare a cavallo il maresciallo Georgij Zhukov e di raccogliere gli applausi commossi e gli “Urrà” della gente. Felici che, dopo 1.418 giorni, la Grande Guerra fosse finita e che i nostri sacrifici in nome della patria non fossero stati vani».
La madre di tutte le “parate della vittoria”
Quella del 24 giugno del 1945 fu la prima Parad Pobedi, la madre di tutte le “parate della vittoria”. Non ce ne furono altre fino al 1965 quando Leonid Breznev le ripristinò per commemorare l’anniversario della resa nazista e del trionfo sovietico il 9 maggio, ma è stato Vladimir Putin a fare del Giorno della Vittoria sul nazifascismo il culmine del calendario propagandistico del potere.
Più di 27 milioni di sovietici morirono. Non c’è famiglia che non abbia versato il suo tributo di sangue sull’altare della Seconda Guerra Mondiale, qui chiamata Grande Guerra Patriottica. Come Krivchenko che vide il padre ufficiale per l’ultima volta mentre «saliva a bordo in un tram» per il fronte da cui non sarebbe più tornato.
Putin ha trasformato la memoria di quello smisurato sacrificio collettivo nel culto di un glorioso passato su cui ha fondato l’orgoglio per la potenza presente e, da tre anni, anche il consenso per quella che chiama “denazificazione” dell’Ucraina. Il rituale della parata che andrà in scena domani è quello, quasi immutato, deciso dai luogotenenti staliniani ottant’anni fa, ma, sospira Krivchenko, «allora a marciare era la “Generazione di Vincitori” che quella guerra l’avevano combattuta e vinta. Oggi i sopravvissuti sono spettatori, non più protagonisti».
I veterani della Grande Guerra Patriottica
Di quei superstiti ne sono rimasti poche migliaia, sparsi in tutta l’ex Urss. Ultimo legame vivente col passato. Ognuno col suo brandello di memoria sublimato nell’affresco della Storia. Sempre più anziani e malfermi, domani siederanno con le loro medaglie appuntate sul petto in tribuna accanto a Putin. Figuranti del suo show militarista. Non solo ex combattenti in prima linea, ma anche veterani del “fronte interno”.
Credono, come vuole il Cremlino, che il confitto contro il «regime nazista di Kiev» non sia altro che la continuazione della Grande Guerra. Ma in sordina qualcuno protesta per la cinica riscrittura della storia e per il grottesco trionfalismo su una vittoria costata così tante vite.
Rokhlina, sopravvissuta a tutte le battaglie
Maria Rokhlina sognava di diventare pilota, ma il 22 giugno del ’41, giorno del diploma a Zaporizhzhia, «un ragazzo irrompe in classe e grida: “Ci sarà un annuncio in piazza. Dicono che è guerra”». Lasciò i banchi di scuola per il fronte. Non aveva neppure 17 anni. «Ero pronta. Al Komsomol ci avevano insegnato tutto: prestare soccorso e montare e smontare un fucile a occhi chiusi».
Konstantin Panfiorov, «nato nel campo di Kulikovo della battaglia contro i tataro-mongoli del 1380», aveva invece soltanto 9 anni. «Sono uno di quei bambini a cui i nazisti hanno rubato l’infanzia. Coltivavamo la terra a mani nude al motto “Tutto per il fronte! Tutto per la vittoria!”. Da mangiare a noi non restava nulla. Sgranocchiavamo semi di nascosto».
Esile, un occhio guercio, piange quando rammenta: «Conosco il nazismo di persona, non dai libri. Ho visto coi miei occhi i tedeschi bombardare le nostre città, incendiare i nostri villaggi, violentare le nostre donne e deportare la nostra gente».
Rokhlina è sopravvissuta al fuoco delle più grandi battaglie. A Stalingrado, dove l’assedio avrebbe ucciso quasi mezzo milione di suoi connazionali, sentì «l’odore di zolfo e bruciato» e vide il «Volga prendere fuoco» dopo il primo bombardamento del 23 agosto del ’42.
Infermiera da campo, si offrì volontaria per portare un ferito sull’altra riva del fiume non ancora del tutto gelato. Era uno scricciolo, «35 chili per 150 centimetri», ma lo trascinò da un lastrone di ghiaccio all’altro. Al ritorno le diedero la prima medaglia, al merito militare. «È quella a cui tengo di più».
Quell’inverno, nella storica Fabbrica di trattori Stz, c’era freddo e nulla da ardere. «Dormivamo in piedi, perché il pavimento era di cemento. Gelido. Per scaldarci ci abbracciavamo. Fu lì che ci giurammo che, se fossimo sopravvissuti, non avremmo mai dimenticato quella tragedia né permesso che altri la dimenticassero. Per me Stalingrado resta Stalingrado. Volgograd non esiste».
Tessera comunista presa orgogliosamente a Poltava «dove Pietro il Grande sconfisse i svedesi», e mai più abbandonata, ama il rosso, dice come se ce ne fosse bisogno: rossa la giacca, il rossetto un po’ sbavato, il cellulare e le vezzose lenti. Il 12 luglio del ’43 era a Prokhorovka, nella regione di Kursk. Non la uccise neppure la più grande battaglia di carri armati della storia. «Il boato era incredibile. Bruciava tutto: il ferro, l’acqua, la terra, le persone. C’era un tanfo insopportabile e un fumo nero che il sole non si vedeva. Morirono quasi tutti».
Il “veterano del lavoro” Panfiorov
La notizia della vittoria a Panfiorov arrivò «col passaparola» che era in campagna. «Non avevamo né corrente, né radio. Sapevamo dei caduti dai telegrammi. Quando arrivava il postino, le donne si nascondevano per continuare a illudersi che i loro cari fossero ancora vivi».
S’infiamma quando spiega il suo punto di vista sull’Ucraina che è quello di tutti i russi imbevuti di propaganda. «Non volevamo questa guerra. Per noi è una guerra civile perché ci si ammazza tra fratelli. Non siamo occupanti come dite. Combattiamo per liberare la terra russa dal nemico che si è avvicinato alle nostre porte. Difendiamo quello che ci appartiene come ci difendevamo dai nazisti. La Russia vincerà. È già scritto».
Anche la centenaria Rokhlina ripete il mantra «la vittoria sarà nostra». Il 9 maggio del ’45 si trovava a Praga dove gli ultimi drappelli nazisti tentarono di resistere. «Celebrammo la vittoria soltanto dieci giorni dopo. Adesso si fa di tutto per attribuirla al popolo russo che era solo un frammento della grande Urss. È un reato. La vittoria fu di tutto il popolo sovietico e io non permetterò a nessuno di rimpicciolirla. Ai soldati in Ucraina dico sempre di seguire l’esempio del soldato sovietico e la vittoria sarà loro».
Rokhlina sferza, poi si schermisce. «Non sono che un piccolo soldato della Grande Guerra. Vivo perché sono l’ultima sopravvissuta di quanti giurarono a Stalingrado. Vivo per mantenere la parola data: non dimenticare e non lasciare che nessuno dimentichi».